Dopo vari contrordini,
abboccamenti e una messa a punto accurata dei costumi e del cerimoniale,
Francesco Sforza entrava solennemente in Milano il 22 marzo 1450. Il condottiero
vittorioso avrebbe dovuto compiere il tragitto tra Porta Ticinese e il
centro della città seduto su di un carro trionfale, ma lo Sforza
rinunciò al monumentale apparato ("superstitione di re",
avrebbe affermato) accettando invece di cavalcare sotto un baldacchino
di seta bianca trapunta d'oro. Nella piazza dell'Arengo, su di un palco
allestito di fronte alla facciata del Duomo ancora in costruzione, il
duca aveva indossato il clamide bianco intessuto di ermellino, ricevuto
dalle mani "dei più illustri cittadini", la berretta,
lo scettro, lo stendardo inquartato, il sigillo, la spada (Colombo, 1905).
Non si sono conservati ricordi visivi dello sfarzoso corteo (la medaglia
che ritrae Francesco Sforza e il suo ingresso trionfale risale al 1488
circa e trasfigura l'avvenimento come un episodio di storia antica: Welch,
1995); le cronache contemporanee lasciano intendere tuttavia quali fossero
le preoccupazioni dominanti, sul piano dell'immagine, del nuovo duca:
proporsi dopo gli anni travagliati della Repubblica Ambrosiana come il
riconciliatore sociale, padre della patria, e al tempo stesso l'erede
legittimo della dinastia viscontea. La città di Francesco Sforza
si svilupperà dunque nel segno della continuità; lo Sforza
continuerà la tradizione mecenatizia dei predecessori nei confronti
della Chiesa e degli ordini mendicanti controllando i nuovi cantieri in
modo diretto o tramite la presenza di uomini suoi nei consigli e nelle
"scuole dei deputati" (Boucheron, 1998); anche la "fabbrica"
del Duomo, che durante il breve periodo repubblicano aveva espresso gli
interessi protezionistici dell'aristocrazia cittadina (nel 1450 era stato
collocato sull'altare maggiore un Crocifisso in marmo dipinto affiancato
dalle figure di Sant'Ambrogio e della Libertas: Welch, 1992, 1995), fu
investita dal nuovo potere.
Poco dopo il suo insediamento il duca ordinò inoltre la costruzione
del castello di Porta Giovia (I° luglio 1450). L'edificio che era
diventato il simbolo della dissimulazione tirannica di Filippo Maria Visconti
e di cui la Repubblica aveva incoraggiato lo smantellamento (vendite ai
privati delle aree adiacenti, materiale di recupero offerto gratuitamente
a chi si impegnava a estrarlo dalla fabbrica) fu trasformato in un cantiere
colossale e divenne un centro di attrazione per gli architetti lombardi
e forestieri. Qui giunse nel mese di settembre 1451, raccomandato dai
medici, il fiorentino Antonio Averlino detto il Filarete incaricato di
disegnare le torri dell'edificio "verso la città". Possente
struttura difensiva inserita nel tracciato delle fortificazioni, il Castello
era stato in effetti destinato più a controllare l'agglomerato
urbano che la campagna alle spalle. L'idea di un'architettura ornata proposta
dal Filarete incontrerà tuttavia resistenze tenaci. "Ad ogni
progetto del Fiorentino, le maestranze lombarde oppongono gli imperativi
dell'organizzazione del lavoro, dei finanziamenti, delle scadenze. malgrado
il sostegno del duca e del suo segretario Cicco Simonetta, Filarete sarà
costretto a lasciare il cantiere nel giugno 1453. In fin dei conti, la
torre ricostruita da Luca Beltrami alla fine dell'Ottocento e che porta
il nome di "torre del Filarete" deve ben poco all'architetto
fiorentino. La concezione militare del castello di Milano ha finito per
prevalere sulle ambizioni architettoniche che in un primo momento sembrano
aver tentato il duca. La nomina di Bartolomeo Gadio, compagno d'armi di
Francesco Sforza, il 19 novembre 1454 a commissario generale del cantiere
sancisce definitivamente questa tendenza" (Boucheron, 1998).
Almeno fino alla Pace di Lodi (9 aprile 1454), che consente alla città
un lento recupero economico e il consolidamento dell'equilibrio sociale
(i provvedimenti in favore delle "arti" seguono la grave crisi
e l'emigrazione artigiana del 1451: Catalano, 1956; Antoniazzi Villa,
1986), le iniziative sforzesche si sviluppano soprattutto nel settore
dell'edilizia monumentale "per rinforzare la difesa militare della
città e rinsaldare l'immagine personale del duca" (Bandera,
1997). La produzione figurativa è infatti oggetto di un persistente
discredito nell'ambiente della corte. Riprendendo un tema che contraddistingue
l dibattito sulle arti durante tutto il corso del XV secolo, Francesco
Filelfo (già al servizio dei Visconti) evocherà nel 1459
la caducità de "li superbi palagi et de tanti exquisiti edifitii
fabricati con tanta expesa et leggiadria" perché in passato
"vedemo tute queste fabriche et industrie corporale per spatio de
tempo mancare, ruinare, venire an ulla" (Resta, 1983). La letteratura
encomiastica a Milano abbonda in elogi nei quali il duca appare come mecenate
di "homeni litterati, per le cui opere li glorisi facti de' Signori
oltra altri frutti rimanghano eterni" (Costantino Lascaris, 1462,
in Motta, 1893). Le lettere assicurano memoria duratura e la loro supremazia
sulle immagini rimarrà intatta anche in quei casi in cui il progetto
decorativo è di notevole portata. Le diciotto figure affrescate
sui pilastri della corte dell'Arengo, che il Lomazzo (1584) ricorda come
"baroni armati", erano accompagnate da epigrammi composti dal
Filelfo: un programma basato sulle immagini di guerrieri antichi e di
dodici eroine del passato le cui biografie erano state rintracciate nell'opera
magna di Plutarco (Picci, 1907; Agosti, 1990; Cagliotti, 1994) secondo
un gusto erudito e moraleggiante in quegli anni già solidamente
assestato (a Milano con il ciclo giottesco per Azzone Visconti, a Castiglione
Olona con quello attribuito al Vecchietta per il cardinale Branda: Gilbert,
1977; Bertelli, 1989). E' difficile oggi immaginare quale fosse l'impatto
visivo di questa ideale genealogia cortese, indecifrabile senza il sussidio
del testo scritto; ancora più arduo evocare il metro stilistico
delle immagini, anche se la presenza del nome di Bonifacio Bembo e della
data 1461 (inscritti alla base di una delle figure: Bandera Bistoletti,
1987) lega comunque il ciclo a una fase cruciale della pittura del gotico
tardo il Lombardia. la partecipazione del Bembo alla decorazione affrescata
dell'Arengario si colloca infatti tra gli afreschi della cappella Cavalcabò
in Sant'Agostino a Cremona (1447-1452 circa; Bandera Bistoletti, 1987)
e la pala per l'altare maggiore del Duomo cremonese (ultimata nel 1467,
Cremona, Pinacoteca; Berlingeri-Tanzi, 1992); non è escluso che
nelle classiche figure milanesi già affiorasse la conoscenza di
una nuova ragione visiva che forse Bonifacio aveva conosciuto tramite
il fratello Benedetto (il polittico di Torchiara di quest'ultimo, 1462,
oggi al Castello Sforzesco di Milano, è aggiornato sulle novità
ferraresi elaborate nello Studiolo di belfiore) (Tanzi, 1997).
La rarità dei documenti visivi superstiti rende estremamente problematico,
forse vano, tentare di ricostruire il tessuto figurativo di questo momento;
la revisione globale della documentazione archivistica e dei dati amministrativi
della corte operata dagli storici in tempi recenti (Lubkin, 1994; Welch,
1995; Boucheron, 1998) consente tuttavia di intravvedere almeno alcune
linee di forza della politica culturale dei primi anni di governo di Francesco
Sforza: La strategia diplomatica del condottiero sembra in effetti incidere
pesantemente anche sulle scelte nel campo delle arti; la vicenda della
costruzione dell'Ospedale maggiore, primo segno forte del "buon governo"
del duca, è da questo punto di vista esemplare: il modello del
nuovo edificio, lungamente pensato sotto il profilo istituzionale, organizzativo
e architettonico, verrà infatti da Firenze (saranno eseguiti i
rilievi dell'ospedale di Santa Maria Nuova e di quello senese di Santa
Maria della Scala) dove Cosimo de' Medici sarà personalmente implicato
nel progetto. Fiorentino sarà l'architetto prescelto, fiorentino
era anche quel "maestro che oggi non ha pari" (molto probabilmente
Bernardo Rossellino) che Cosimo suggeriva all'alleato lombardo (1456:
Leverotti, 1981); il Filarete sarà imposto dal duca al consiglio
dell'Ospedale malgrado le forti resistenze locali. Francesco Sforza ha
dunque un ruolo attivo nell'importare a Milano il nuovo vocabolario stilistico
toscano, messo in opera in un edificio che si voleva "bello, acconcio
e più ordinato sia possibile" (Filarete, 1458-1464, ed.1972):
un prototipo di intelligenza architettonica destinato a divenire a sua
volta modello insuperabile.
Anche dal punto di vista linguistico, l'impresa dell'Ospedale è
difficile da sottovalutare, non solo perché essa rappresenta la
più compiuta espressione di "concezione lombarda e progetto
toscano" (secondo una felice definizione di Carlo Bertelli, 1989)
ma anche perché fu il luogo, in anni molto alti per la storia dell'arte
lombarda, di alcuni incontri fecondi (Agosti, 1990). Il repertorio dei
motivi decorativi in terracotta (fregi marcapiano, cornici architettoniche,
medaglioni con busti a tutto tondo) nelle sezioni che sono sopravvissute
costituisce una testimonianza fondamentale della diffusione di un apparato
ornamentale in cui coesistono motivi all'antica (probabilmente di origine
fiorentina) e temi propri della tradizione padana (Maggi-Nasoni, 1983).
Per quanto concerne le presenze pittoriche, l'indagine deve invece affidarsi
esclusivamente ai dati d'archivio e alle testimonianze letterarie, ma
anche questa traccia, per quanto esile, restituisce al cantiere un ruolo
centrale. lavorano infatti per l'ospedale Gottardo Scotti (nel 1462 esegue
per l'altare della crociera centrale una preziosa immagine della Vergine:
Pecchiai, 1927) che conosciamo in una fase più tarda e con luminose
aperture transpadane nel trittico della "Madonna della Misericordia",
oggi al Poldi Pezzoli (Natale, 1982a); a una data così precoce
le esperienze pierfrancescane del pittore piacentino dovevano essere ancora
in gestazione e non è impossibile che esse siano state innescate
da Baldassare d'Este, pittore "ricercatissimo in corte, come alternativa
a Bonifacio Bembo e al Foppa in via di affermazione" (Romano, in
"Zenale e Leonardo", 1982). L'artista emiliano (che i documenti
ferraresi del 1469-1474 dicono attivo quasi esclusivamente come ritrattista:
Venturi, 1884) nello stesso anno in cui esegue a Milano il ritratto del
conte Giovanni Borromeo (1466: Biscaro, 1914) lavora come pittore per
un altare della chiesa dell'Ospedale, con una misura espressiva forse
già segnata dagli artifici dei maestri dello Studiolo di Leonello
d'Este a Ferrara, ma non ancora assestata su quella maniera altezzosa
che contraddistingue il "Ritratto di Borso d'Este" del Castello
Sforzesco di Milano (Benati, in "Le muse e il principe, 1991). I
due ritratti su tela di Francesco Sforza e di Bianca Maria Visconti già
nel Duomo di Monza (Milano, Pinacoteca di Brera), più applicati
e pianamente descrittivi, forse costituiscono (come già è
stato suggerito, ma con altre conclusioni sul piano attributivo e della
datazione, dalla Bandera, in "Le muse e il principe, 1991) il ricordo
più attendibile di questa fase figurativa.