Al termine della sua fatica, logicamente e spontaneamente s'affaccia nel
compilatore del catalogo degli oggetti d'arte la esigenza di assurgere
dalla informe copia dei dati raccolti ad una sintesi, e di rintracciare
quindi le generali caratteristiche dell'arte nella zona percorsa.
Il lavoro di catalogazione ha insita la tendenza alla frammentarietà
ed alla puntualizzazione dell'interesse in ogni singola opera catalogata.
Aggiungasi che, per sua natura - date le finalità amministrative
che si associano a quelle di un vaglio critico -, esso implica la sistematica
esplorazione di tutti i centri di una Provincia, per rintracciarvi e descrivere
anche quelle opere secondarie, se non addirittura negative per l'arte,
che meritano una conservazione, non foss'altro che per essere le superstiti
tracce del passato. Si rende in tal modo inevitabile la lunga enumerazione
di opere anonime ed impersonali, per lo più di un anodino e rozzo
fare popolaresco (che di rado rivestono quei valori di autonomia creativa
e di schietta originalità che permette di considerarle genuini
prodotti di arte popolare) oppure di un convenzionale e fiacco riecheggiamento
provinciale di maggiori esempi. Spontaneo sorge quindi il bisogno di sceverare
fra tanto materiale raccolto ciò che appare veramente significativo
per la storia artistica della regione visitata, sottolineandone l'importanza
con un criterio di selezione qualitativa che il lavoro di catalogazione
non è sempre adatto ad attuare.
Oserei affermare che questa esigenza di sintesi è più che
mai impellente per quanto riguarda la Provincia di Milano, di cui si è
testè concluso il lavoro di raccolta del materiale del catalogo.
E' radicata infatti l'opinione che fa considerare la Provincia di Milano
come una zona artisticamente assai povera. Tale giudizio potrebbe avere
una qualche giustificazione soltanto se ci si lasciasse traviare da uno
stolto criterio quantitativo, prendendo per base il gran numero di chiese
se non addirittura recenti quanto meno insignificanti, rimaneggiate e
spoglie di pregi artistici, oppure se si dovesse dar peso a sommarie e
frettolose impressioni. Chè - sotto questo aspetto - manca invero
assai spesso alle chiese sparse nella uniforme pianura lombarda e la imponenza
e la originalità e la suggestività; difettano le manifestazioni
di quella arte popolare, spontanea nella sua sincera devozione, che conservano
invece tante chiese delle nostre vallate alpine; difficilmente si riscontra
rispetto per il passato, per la smania - caratteristica del secolo scorso
e di una popolazione relativamente benestante - di abbellimenti e di rammodernamenti
che ha dato e dà assai spesso frutti di pessimo gusto.
Di fronte a tale opinione negativa, anche se dovuta ad una superficiale
prevenzione, occorre invece rivendicare l'importanza dell'arte del Milanese.
La Provincia di Milano è ricca di opere e di monumenti che non
solo integrano l'arte e le correnti artistiche della città di Milano
(come sarà posto in piena luce quando si affronterà la catalogazione
mobiliare ed immobiliare della città ambrosiana) ma che - soprattutto
per la pittura - assumono una così imprescindibile importanza che,
trascurandoli, il panorama dell'arte milanese riuscirebbe monco ed insufficiente.
Con ciò sarebbe ingenuo attendersi o pretendere dal catalogatore
delle sensazionali scoperte o delle rivelazioni inedite di grande portata.
Se ciò sarebbe assurdo per ogni altro Catalogo, lo è più
per quello della Provincia di Milano, zona ampiamente studiata. E' gran
merito di una egregia schiera di studiosi locali della seconda metà
dell'Ottocento - dal Mongeri al Caffi, dal Beltrami al Sant'Ambrogio,
per non ricordare che i maggiori ed i più infaticabili - di avere,
con paziente modestia ed invincibile passione, esplorato, indagato ed
illustrato monumenti ed opere della Provincia creando un copioso e documentato
materiale bibliografico. Di esso si sono poi avvalsi, portandovi una più
acuta ed agguerrita analisi, i critici italiani e stranieri di questo
secolo, dalle cui ricerche hanno tratto origine quelle fondamentali e
sistematiche trattazioni dell'arte lombarda che diedero a Toesca per la
pittura, il Rivoira ed il Porter per l'architettura, il Malaguzzi-Valeri
soprattutto per le arti minori, e, in forma più elementare, il
Vigezzi per la scultura, oltre, s'intende, le parti dedicate alla Lombardia
dei maggiori trattati di storia d'arte. Di fronte ad una zona così
attentamente e profondamente studiata, gli apporti nuovi del Catalogo
non possono essere che limitati di numero e d'importanza.
Un criterio d'indole protica (che trova tuttavia una giustificazione nella
constatazione che, anche in periodi contemporanei non appaiono qui stretti
e costanti nessi fra i vari aspetti artistici) consiglia di esaminare
partitamente la pittura, la scultura e le arti minori, su cui il Catalogo
ha portato il proprio analitico, descrittivo e critico contributo.
PITTURA
E' noto non essere di capitale importanza l'apporto milanese alla pittura
romanica: ma quanto di meglio resta lo si trova tuttavia più nella
Provincia che nella città di Milano.
Se un improvvido e troppo radicale restauro del secolo scorso non ne avesse
alterato i caratteri originari, di eccezionale pregio sarebbero gli affreschi
- da assegnarsi al sec. XII - sulla parete sinistra della navata centrale
della basilica di San Pietro ad Agliate. Mentre un fregio a greche e meandri
in prospettiva, con riquadri a cui s'affacciano teste virili e femminili
classicheggianti, si svolge alla sommità delle navate e dell'arco
santo, sono ivi rappresentati, in una zona superiore della parete, tra
le finestre. Dio Padre che impone la destra su Adamo vivificandolo, e
Dio Padre che trae la titubante figura di Eva dal fianco di Adamo che
giace riverso nel suo tormentato sonno. Malgrado gli impacci e le schematiche
sommarietà, la composizione appare libera da stilizzazioni bizantine
e, meglio che non nei pur affini affreschi della navata di San Vincenzo
a Galliano, vi si riscontra una individuazione del gesto caratteristico
ed espressivo che rivela influenze più ottoniane che carolingie.
Singolare è pure l'energia e la sciltezza con cui l'anonimo pittore
affronta i problemi del nudo. Una fascia decorativa a meandri, entro cui
stanno riquadri con simboli paleocristiani, divide questa dalla zona inferiore,
in cui gli affreschi - frammentari e quasi abliterati - si susseguono
senza partizioni. Sullo sfondo di sommarie architetture cupoliformi, sisvolgono
la Natività, la Visitazione e la Annunciazione, con figure più
minute e meno evidenti che nella zona superiore, animate da analoga caratterizzazione
espressiva.
Alla stessa corrente artistica appartengono figure di Santi, gruppi di
angeli e frammenti di fregi decorativi nel Battistero di detta Basilica,
assai guasti ed in parte ricoperti da rozzi affreschi popolareschi del
sec. XIV. Ma in essi appare un'altra mano, assai scadente ed incolta,
libera anch'essa dalle stilizzazioni bizantine, ma impacciata in una presentazione
schematica, statica e convenzionale, coloristicamente assai povera.
Dobbiamo poi scendere alla fine del sec. XIII per trovare ulteriori documenti
pittorici romanici, nella Chiesa di San Francesco a Lodi, così
ricca di dipinti di varie epoche. Pare che al 1288 risalgano alcune scene
bibliche sulla parete interna della facciata, mal decifrabili, e svolte
con una calligrafica vivacità che richiama la tecnica miniaturistica
del tempo.
Dello scorcio del secolo è la raffigurazione di San Francesco che
riceve le stimmate, dipinta su di un pilone della stessa Chiesa. Mentre
la figura del Santo ripete, con pesantezza, una tradizione iconografica
ormai consolidata in un tipo convenzionale, si affermano con singolare
ampiezza elementi paesistici di una dirupata e schematica desolazione.
Influenze oltramontane, già volgenti al gotico, si fondono qui
con manierismi popolareschi.
Di rude efficacia è la scena del Battesimo di Cristo, dipinta su
altro pilone da un anonimo pittore del principio del Trecento. Le forme
sono tozze ed hanno quei caratteri di sommarietà popolaresca che
contraddistinguono la maggio parte degli affreschi di San Francesco; ma
l'opera mostra una energica concentrazione espressiva non esente, nella
sua deficienza volumetrica, da qualche primo manierismo gotico. Dello
stesso autore, ma più statiche ed arcaistiche, sono le ieratiche
figure di un Vescovo (stesso Vi pilone destro), di San Giacomo (V pilone
sin.), e di San Nicola (IV pilone destro).
Di altra mano, più rozza, non altrettanto scevra da ritardatarie
stilizzazioni bizantine, ma rispecchiante tuttavia un affine indirizzo,
sono le figure del Salvatore entro mandorla, degli Apostoli e di Santi
nell'abside e nel presbiterio della chiesa di San Bassiano a Lodivecchio,
eseguite più tardi, cioè verso il 1321, del pari ancora
esenti da influenze giottesche. Questa corrente trova una caratteristica
espressione nella decorazione di una volta con la schematizzata, ma vivace
raffigurazione di quattro carri trainati da buoi che trasportano legname
e pietre, simbolo della locale corporazione dei boarii, in memoria della
cooperazione da essa data alla ricostruzione della chiesa.
Ben più considerevole di queste opere, ancora legate ad una concezione
romanica, è l'apporto del Milanese alla pittura del Trecento vivificata
dal grande afflato di Giotto. E, a tale riguardo, la Provincia ci rivela
opere assai più significative di quelle coeve della città
di Milano.
A poco dopo il 1327 risalgono i due affreschi che ornano la tomba di Antonio
Fissiraga, nel braccio destro del transetto in San Francesco a Lodi. Già
una derivazione dell'arte toscana mostra quello con le esequie del nobile
personaggio lodigiano, adaiato sul cataletto nell'umile saio di terziario,
mentre i frati recitano le preci. Ma in esso prevalgono in tal modo elementi
convenzionali e debolezze, nella statica ripetizione delle figure, da
lasciar supporre che esso sia eseguito da un mediocre aiuto. Di ben altro
valore è invece il coevo affresco superiore, di affine maniera,
con la Madonna in trono, sotto una edicoletta a frontoni triangolari gotici,
adorata dal Fissiraga in costume signorile che presenta il modello della
Chiesa, raccomandato da S. Francesco che gli posa la mano sul capo e da
San Bassiano in paramenti. La penetrazione di elementi toscani è
qui veramente intima e vitale. La figura della Vergine congiunge un sicuro
senso spaziale ed una equilibrata grazia; la scena è ritratta con
soida maestà, a cui concorrono il senso energetico della linea
non priva di gotici stilismi, il ben modulato volume dei panneggi ed il
colorito armonico e sobrio, a forti risalti ed a morbide ombreggiature.
E la composizione mostra già sicure esigenze di profondità,
anche se la prospettiva assume qui un valore decorativo e pittoresco più
che non di struttura spaziale. Di fronte al predominio in Lombardia di
correnti giottesche, è singolare come l'affresco, anche per il
modulato prezioso colorito e per il dolce sfumare di rosee soffusioni,
abbia uno spiccato accento di derivazione senese e denoti anzi una precoce
affinità stilistica con la maniera di Pietro Lorenzetti, pur serbando
elementi descrittivi e realistici di impronta lombarda. Il riecheggiamento
di derivazioni senesi (e qui piuttosto dalla maniera di Ambrogio Lorenzetti)
è ancor più evidente, pur sempre concorrendo con caratteri
lombardi, in una posteriore e più volumetrica Madonna col Bambino
sul pilastro di accesso alla cappella di San Bernardino. Derivano dall'affresco
Fissiraga, per quanto con più duri tratti convenzionali, che fanno
ritenere probabile l'esecuzione da parte di pittori locali, le figure
di San Clemente e Sant'Elena (II pilone sin.) e di una Madonna col bambino
(VII pilone sin.).
Derivazioni giottesche, ma appesentite da una interpretazione popolaresca
e votiva o travisate da stilizzati manierismi gotici, mostrano invece
molte altre figure di Santi, di Madonne, nonché le decorazioni
delle volte, eseguite nel corso del XIV sec. da diverse mani. Come esempio
di questo tramutarsi della ispirazione giottesca in poveri convenzionalismi
lombardi che o inseriscono particolari realistici, o esagerano le espressioni
e i gesti, o ricercano grafici stilismi, vanno considerati soprattutto
la Crocefissione e l'Arcangelo Michele, entrambi sul primo pilone destro,
la Visitazione (III pilone destro) ed una Madonna (II pilone destro).
Non hanno particolari pregi, nel loro compromesso tra senso plastico giottesco
e rigidi, insistenti elementi linearistici, le due uniche e ritardatarie
opere che (tuttavia non senza dubbi sulla loro identificazione) escono
dall'anonimato: l'ingenua figura votiva di San Giovanni Battista di un
Antonio da Lodi, del 1373 (VI pilone sin.) e quella, più greve,
di San Lodovico, di Taddeo da Lodi, del 1392 (I pilone sin.).
Diverso carattere da quello preminentemente votivo che hanno gli affreschi
di S. Francesco, denota il vasto affresco, un tempo nella Chiesa di San
Michele, a Monza, ora nella sagrestia del Duomo. Il soggetto iconografico
(un sacerdote celebrante circondato da personaggi profani, da Santi, dallo
stesso Redentore e dalla Vergine) è oscuro; sia che vi si voglia
ravvisare la consacrazione della Basilica di San Michele sul Monte Gargano,
sia che lo si voglia considerare un raro esempio di rappresentazione di
una "messa aurea". Pur nella sua derivazione giottesca l'affresco
possiede una esigenza plastica ed una vena descrittiva realistica affrontata
con rigidezze e pesanti manierismi. Esso è certamente non posteriore
alla metà del XIV sec., e certamente di un pittore locale piuttosto
impacciato.
Opere di ben maggior pregio di quelle indicate documentano la vitale efficienza
nel Milanese delle correnti giotesche ed il singolare contributo che vi
arrecano i lombardi con ricerche luministico-chiaroscurali che introducono
valori ignoti agli stessi seguaci toscani di Giotto, recando così
un vitale apporto.
Vengono primi di importanza e di tempo gli affreschi della Badia di Viboldone,
costruita nel 1349. Dando laboriosa veste critica alle generiche supposizioni
di autori locali, il Suida s'è indotto ad identificare in Giovanni
da Milano l'autore dei dipinti del tiburio e ad essi ne ricollega altri,
di cui tosto parleremo, sostenendo in tal modo una vasta ed egregia attività
in patria del maestro lombardo, prima del suo soggiorno fiorentino. Tale
invogliante opinione è tuttavia senz'altro da scartarsi. Non soltanto
essa è contraddetta da ragioni cronologiche - è documentata
la presenza di Giovanni da Milano a Firenze dal 1350 al 1366, quindi nel
periodo a cui vanno ascritti i diversi cicli di Viboldone, di Solaro,
di Mocchirolo - ma da ragioni stilistiche e dal maggior pregio che hanno
gli affreschi lombardi raffrontati alle opere fiorentine di Giovanni da
Milano. Un esame più attento degli affreschi porta infatti a scinderli
in diversi cicli, prossimi bensì nel tempo, ma di diversa mano.
Il più fedele alla tradizione giottesca, e, più particolarmente,
alle opere padovane del maestro - sì da giustificare l'ipotesi
che egli vada ricercato tra i seguaci padovani di Giotto - è il
maestro che, nel 1349, dipinse sulle pareti del tiburio. Solenne, nel
concreto e articolato spicco delle figure, è la composizione a
lunetta nell'arco, con la Madonna in trono, affiancata dall'Arcangelo
Michele e dai Santi Giovanni Battista, Bernardo e Nicolò e venerata
dall'offerente. La contrapposta lunetta con il Giudizio Universale, è
una schematica riduzione del prototipo giottesco della Cappella dell'Arena
con realistiche ricerche, di provinciale eccesso espressivo, nel gruppo
dei dannati. Sulle pareti laterali - con l'intervento di uno scadente
aiuto - si scorgono frammentari cortei di patriarchi e di beate scortati
da angeli guerrieri e addotti al cielo dalla Vergine a da San Giovanni
Battista. Purtroppo sono assai guaste le figure di Santi e di frati in
orazione, in alti e decorati stalli, in un conventuale interno, bella,
sicura e agile composizione di alta novità. Un nitido e solido
senso strutturale rafforza queste composizioni nelle quali è evidente
una insistente ricerca realistica, che nulla toglie al largo respiro spaziale
ed alla maestà decorativa. Ma l'insigne contributo di questo maestro
è il delicatissimo e quasi prezioso senso del colore, trattato
con duttile tecnica, in chiare e soffici tonalità, con una freschezza
di sfumate tinte ed una morbidezza di chiaroscuro, che lasciano decisamente
addietro la maniera di Giovanni da Milano, dai fulvi e densi risalti chiaroscurali,
dalle forme più tozze e opache. Né questa si riscontra nell'altra
mano che, sull'arco santo, dipinse la Crocefissione ed i tondi di Adamo
ed Eva. Predomina qui un alto senso drammatico che, con maggiore realistica
insistenza e con uno spirito analitico del tutto lombardo, ricerca e individua
ogni particolare espressivo. Ed anche qui si affermano valori luministici,
in chiaroscuro caldo, a morbide sfumature dorate, del pari lontano da
quello di Giovanni da Milano. Quali siano state le possibilità
coloristiche dell'ignoto maestro lo dimostra la snella, suggestiva figura
di Eva, vista di dorso, dalle rosee e argentine carni, modulate con un
chiaroscuro delicatissimo ed anticipatore.
Il terzo ciclo di Viboldone, cioè gli affreschi con le scene della
vita di Cristo nella volta e sulle pareti dell'ultima campata della navata
maggiore, eseguito verso il 1360, ci fa invece conoscere un pittore più
greve di forme e di colorito che cerca risalto sul fondo neutro ed oscuro,
pittore eminentemente narrativo, più intralciato da manierismi
gotici del precedente, cui è assai affine. Per quanto spiccatamente
risenta nel colorito, influenze senesi, egli si attiene a schemi provinciali,
un cui giustamente è stata individuata una probabile derivazione
emiliano-romagnola.
Altri minori affreschi delle navate laterali, più tardi, mostrano
invece l'irretirsi di derivazioni giottesche in manierismi e stilismi
gotici ed in un gusto realistico e descrittivo, di schiettissima impronta
lombarda.
I cicli pittorici di Viboldone sono inseparabili da quelli, eseguiti tra
il 1365 ed il 1367, nell'oratorio di Solaro. Nella Crocefissione, sulla
parete absidale, ritroviamo, sia pur con appesantimenti e ripetizioni,
lo stesso drammatico realismo, la stessa energia espressiva, lo stesso
intelligente e delicato chiaroscuro della Crocefissione di Vibodone. Non
ritengo invece che tutti gli altri affreschi del piccolo oratorio siano
dello stesso autore. Sulla parete sinistra del presbiterio le storie di
Gioacchino e di Sant'Anna appartengono allo stesso maestro della Crocefissione,
il cui realismo è sorretto da un senso plastico di chiaro accento
giottesco e da morbido chiaroscuro che avviva le delicate tinte. A questi
appartiene pure l'opposta elegante Santa Caterina. Sulla parete opposta
invece le storie della Vergine - tra cui è particolarmente notevole
l'Adorazione dei Magi per i ricchi costumi - hanno gli stessi cadenzati
stilismi, gli stessi preziosismi cromatici con influenze senesi, spiccanti
su fondo scuro e neutro, e gli stessi schematismi provinciali del maestro
del terzo ciclo di Viboldone.
Leggermente anteriori (tra il 1355 ed il 1360) sono gli affreschi dell'oratorio
di Mocchirolo. Collaborano qui due maestri: l'uno, autore del Dio Padre
che solennemente troneggia nella volta e della Crocefissione nella parete
di fondo, pur non potendosi identificare nell'autore delle Crocefissioni
di Viboldone e di Solaro, ne è stilisticamente affine nel realistico
senso drammatico, per quanto esso venga dominato in una più efficace
sintesi e in una più concentrata coerenza. Anche questo maestro
si afferma per valori chiaroscurali, usando una caratteristica sfumata
ombreggiatura fulva e cuprea che affettivamente si accosta a Giovanni
da Milano. Invece gli altri affreschi sulle pareti - Sant'Ambrogio che
scaccia gli Ariani; il matrimonio di Santa Caterina; la famiglia Porro
in ricchi attillati costumi inginocchiata in devozione avanti la Vergine
- ci rivelano un altro e nuovo maestro lombardo - assai diverso ma non
certo inferiore al collaboratore - dalla linea incisiva e sinuosa e dal
tenue delicatissimo colorito, con predominio di bianchi ambrati, rilevato
da caratteristiche ombreggiature verdoline o di un lieve incarnato. Già
un ideale di corte sembra ispirare il pittore nella interpretazione degli
eleganti ed attillati costumi che inguaiano le sue soavi figure, di cui
è indimenticabile la raffinatissima e stilizzata Santa Caterina.
Il ciclo di Mocchirolo trova una più tarda (circa 1369) continuazione
nell'oratorio di Santo Stefano nel vicino Lentate. Sulla parete absidale
la Crocefissione, però senza la stessa drammatica stringatezza,
più sviata da particolari narrativi, e con provinciali appesantimenti,
discende dal prototipo di Mocchirolo. Al maestro che dipinse sulle pareti
laterali di Mocchirolo - con l'intervento di un aiuto - vanno invece assegnate
la scena della famiglia Porro in adorazione di Santo Stefano cui un alato
stuolo di angeli reca omaggi e le figure di Santi del presbiterio, che
nella loro tipica ricerca di ricchi costumi signorili, ripetono gli stessi
eleganti stilismi e gli stessi preziosismi coloristici e luministici di
Mocchirolo. Le storie di Santo Stefano nella navata sono invece di un
pittore più scadente e popolaresco, non insensibile ad influenze
veronesi, le cui esigenze narrative si esplicano in una ingenua e statica
presentazione di personaggi, impreziositi da realistici particolari, in
schematici interni senza profondità od in ingenui e sommari paesaggi.
Alla fine del sec.XIV le ultime propaggini di queste tanto vitali correnti
di origine giottesca, arricchite nel Milanese da così delicati
e maturi valori luministico-chiaroscurali, vengono ad esaurirsi, prevalendo
ormai altre maniere. Così, ad es., nella Crocefissione e negli
altri frammenti della cappella del Crocefisso della chiesa di Trezzo,
ultime suggestioni giottesche si impoveriscono e si appesantiscono in
rozze e rigide forme popolaresche; nella figura di San Elzeario (III pilone
sin.) ed in altre consimili di San Francesco a Lodi sono sopraffatte da
manierismi gotici e da contorti elementi linearistici; nelle vivaci storie
di San lodovico da Tolosa, nei sottarchi della navata sinistra della stessa
chiesa, prevale un senso narrativo di derivazione miniaturistica, che
richiama prototipi oltramontani.
Il gusto raffinato e signorile che anima alcuni degli affreschi di Mocchirolo
e di Lentate segna nei suoi preminenti valori decorativi, di lineare stilizzazione
e di preziosismo cromatico, il passaggio, senza bruschi contrasti, a quelle
forme del primo quattrocento che si riallacciano alla "corrente internazionale"
tanto attiva nella Lombardia. Ottimo esempio di questa blanda transizione
sono l'immagine di Santa Caterina sul VII pilone destro di San Francesco
a Lodi, opera del principio del XV sec., e le altre opere dello stesso
maestro (S. Elena e Madonna, V pilone d.; Madonna, S. Caterina e la venusta
S. Maria Maddalena, I pilone sin., ecc.). Le figure, in attillati eleganti
costumi, delineati con sinuose curve, trattate con delicatissimo colorito
dalle tenui sfumature, richiamano nella loro fiorente giovinezza, nello
sfarzo dei costumi e delle belle acconciature, le immagini dei "tacuina
sanitatis", vanto del disegno e della miniatura lombardi. E quanto
ormai questo gusto prevalga, lo dimostrano parecchie altre figure di San
Francesco che variamente si sforzano di imitare le raffinatezze di tale
maestro. Un'analoga squisitezza stilistica ed una altrettanta ricercatezza
di costume, ma con maggiore gusto gotico nelle linee cadenzate e calligrafiche,
denota, sempre sul principio del secolo, la Madonna col Bambino sul secondo
pilone di destra in San Francesco a Lodi, già tutta permeata dal
gusto della corrente internazionale, nel fiorito manto bianco e nella
rosea tunica con balza d'ermellino.
Altri aspetti di questa, ma con caratteri più individuati e più
prossimi ai maestri lombardi del tempo, mostrano una Madonna con uno spettrale
Sant'Antonio e l'offerente sul II pilone di sin. Di San Francesco a Lodi,
in cui l'esasperazione gotica dei particolari architettonici del trono,
dei panneggi e del disegno richiama spiccatamente la contorta maniera
di Franco e Filippo de Veris; e, sempre nel terzo o quarto decennio del
Quattrocento, un Cristo crocefisso ed una serie di Santi sulla facciata
esterna dell'abbandonata chiesa di Santa maria la Rossa presso Cusago,
che, nelle eleganti forme e nel morbido colorito, ricordano il gusto di
Michelino da Besozzo.
Il più cospicuo e noto monumento della corrente internazionale
in Lombardia è costituito dal vasto e complesso ciclo delle storie
della regina Teodolinda, dipinto tra il 1444 ed il 1450 dai fratelli Zavattari
nel Duomo di Monza. Il senso drammatico, l'esigenza spaziale, la stessa
efficacia narrativa esulano da questi dipinti, che si appagano della presentazione,
di una ricercata eleganza, di fastosi personaggi in costume con un senso
fiabesco e descrittivo, a cui concorre mirabilmente il primaverile colorito,
tempestato di ori e di gemme, che sopperisce alle deficenze compositive
e formali. Tutto - ambascerie, ricevimenti, cavalcate, banchetti, esequie
- diventa pretesto per sviarsi ad affollare particolari gustosi, squisiti
figurini di moda, ori, fregi e ornamenti.
Più interesse iconografico che valori pittorici presentano i frammenti
con personaggi in costume, trasportati nel Museo di Legnano da una casa
signorile della prima metà del secolo.
Manierismi gotici, congiunti a povertà popolaresca di interpretazione,
permangono stancamente in molti affreschi votivi o decorativi della II
metà del sec.XV (Lodi, S. Francesco; Lodi, Incoronata; Vaprio,
San Colombano; Trezzo, ecc. ecc.) come in taluni più vasti cicli
(Cascina Olona, fraz. Di Settimo; San Damiano, fraz. Di Ceriano laghetto;
Cavenago Brianza, S. Maria in Campo, ecc.).
Se in essi appare timidamente e quasi casualmente qualche accenno di transizione,
è raro trovare, nella schematicità e rozzezza che li contrassegna,
accenti rinascimentali. Perchè ciò si verifichi, bisogna
scendere fino al 1477, agli affreschi con le storie di San Bernardino
dipinte da Gian Giacomo da Lodi nella cappella omonima di San Francesco
a Lodi. Ed anche qui la soluzione è ecclettica e appesantita dalla
mediocrità stilistica del pittore locale che, nella sua ingenua
e faticosa narrazione, fonde elementi realistici e descrittivi lombardi
(che particolarmente insistono sulla presentazione di costumi), reminiscenze
padovano-mantegnesche ed elementi prospettici e plastici da cui non è
estranea l'influenza del Masolino di Castiglione Olona, per quanto lontano
sia ormai il prototipo.
Mentre intanto Milano, ormai vivo centro d'artisti e di ricerche, torna
a divenire il centro propulsore, nella Provincia solo sullo scorcio del
secolo constatiamo chiari sintomi di transizione. Così ad es. nella
volta con i profeti della cappella testè menzionata, prossima alla
maniera del maestro della pala sforzesca, ritroviamo quella singolare
commistione di elementi realistici e disegantivi lombardi e di vaghi accenni
di sfumato, secondo esigenze leonardesche. Modesta ma singolare personalità
di transizione è pure il legnanese Gian Giacomo Lampugnani. Dai
primi suoi dipinti, affatto popolareschi (come l'affresco votivo in S.
Maria delle Grazie a Legnano) egli passa in quelli della Chiesa di San
Magno (del II decennio del XV sec.) ad uno stile ingenuo e timido che
è una ecclettica fusione delle diverse maniere dei maestri preleonardeschi:
dal senso spaziale e plastico del Foppa, alla strutturale concezione del
Butinone, alla grazia bergognonesca, e sinanco a qualche episodico accento
bramantiniano.
Pure opera di transizione sono, al Museo di Lodi, gli affreschi con le
storie di San Giovanni Battista, tolti dalla cappella omonima della Incoronata
di Lodi, dove vennero dipinti nell'ultimo decennio del XV o al principio
del XVI sec. Nella rudezza e negli impacci stilistici dell'anonimo maestro
si ravvisano tuttavia elementi ecclettici lombardi, ispirati dal Butinone
soprattutto, ma anch'essi non del tutto esenti dal senso architettonico
dello spazio del Foppa e da qualche derivazione bramantiniana.
La superba tavola del Bergognone nella chiesa di Melegnano, rappresentante
il Battesimo di Cristo, tutta dominata da delicatissime tonalità
argentine, nella sua melanconica ed esile grazia, e nel suo velato raccoglimento,
è forse il più caratteristico e perfetto esempio della cosidetta
"maniera grigia" del pittore. La quasi totale obliterazione
della data (che si propende a ritenere il 1496) toglie un prezioso termine
di riferimento per la datazione delle posteriori tavole della Incoronata
di Lodi, che segnano il completo superamento di tale "periodo grigio".
Esse sono del pari posteriori al grande affresco della Incoronazione di
Maria che il Bergognone dipinse tra il 1498 ed il 1500 nel catino della
cappella maggiore della Incoronata e che venne barbaramente distrutto
alla fine del XVII sec. Quando venne eretto il coro barocco. Le quattro
tavole - Annunciazione, Visitazione, Adorazione dei magi e Circoncisione
- mostrano la piena maturità stilistica del maestro lombardo. Egli
raggiunge qui, sia nella intima composizione delle scene che negli sfondi
architettonici o paesistici, una sicura padronanza dello spazio ed un
colorito caldo, robusto, di delicato chiaroscuro, che dà una nota
di garvità alla consueta maestà religiosa ed al candore
creativo del maestro.
Conviene accennare qui a quella corrente laterale e provinciale che, nel
secondo e nel terzo decennio del sec. XVI, attuano a Lodi e nel Lodigiano
i fratelli Albertino e Martino Piazza, costituendo la prima generazione
di una famiglia di artisti largamente operosa. La prima opera loro attribuita
è una Madonna votiva del 1509, eseguita nella Incoronata di Lodi,
su commissione di un Trivulzio, lavoro ancora impacciato e crudo, dove
accanto alle più aggraziate figure di Albertino appaiono quelle
più vigorose ed incisive di Martino, ma ancor povere ed inarticolate
nel colore. Bisogna però venire al grande polittico commesso dal
Berinzaghi nel 1513 per la Incoronata di Lodi, per cogliere le caratteristiche
stilistiche dei due fratelli, quali si manifesteranno poi, in una consueta
e intima collaborazione, nei bellissimi polittici di Castiglione d'Adda
ed, in patria, in quelli di Santa Agnese e del Duomo. Malgrado le comune
placidità provinciale, un po' trasognata, Albertino si culla in
una dolce e cadenzata grazia di derivazione peruginesca-leonardesca-bergognonesca
(che, in più che non nelle tavole di Cavenago d'Adda o del Museo
di Lodi, raggiungerà il capolavoro nel suggestivo stendardo serico
con la Incoronazionedella Vergine, dietro l'altare della Incoronata di
Lodi), mentre Martino, con figure più tozze e vigorose, si distingue
per un colorito caldo e tonale, di origine veneto-bresciana, che quella
prima tavoletta votiva non possedeva. Di lui, senza la abituale collaborazione
del fratello, non abbiamo che gli affreschi con le storie di Sant'Antonio
e S. Paolo eremita al Museo di Lodi, del 1513 circa, dure e stentate opere,
di un arruffato linearismo e di deficiente povertà espressiva,
ed il dolce e narrativo affresco dell'Adorazione dei Magi, assegnabile
al 1525 circa, in Santa Maria della Pace.
Il polittico con la strage degli Innocenti nel Duomo di Lodi, iniziato
da Albertino, sopravvisuto al fratello, e completato, anzi forse soltanto
rifinito, nel 1529, dopo la sua morte, da Callisto, Cesare e Scipione,
figli di Martino, costituisce il tramite con la seconda generazione dei
Piazza.
Durante tale quieta parentesi provinciale a base di blandi e ritardatari
moduli, nella pittura milanese si svolgono le radicali conseguenze della
grande rivoluzione artistica provocata dall'arte e dagli insegnamenti
di Leonardo.
Di quel vasto movimento di un manierismo in anticipo che accomuna i leonardeschi
nelle suggestioni di chiaroscuro e di sfumato care al maestro toscano
e in una languida grazia, abbiamo non pochi esempi nella Provincia di
Milano.
L'opera più ispirata, e che meglio richiama i prototipi di Leonardo,
nella sua derivazione del cartone di Sant'Anna, dalla Vergine delle Rocce
e dai disegni, è la bella tavola nella solenne Badìa di
Ospedaletto Lodigiano, con la Madonna, assistita da San Gerolamo e da
San Giovanni Battista che sorregge con le dande il Bambino in atto di
trastullarsi con un agnello, opera fondamentale attribuita al Giampietrino.
La linea nervosa e sensibile sino ad illanguidirsi in soavi cadenze, lo
sfumato delicato e arioso, i brillandti valori coloristici fanno di quest'opera
uno dei più sentiti, solidi ed efficaci lavori del maestro.Meno
significative e personali sono le altre opere attribuite al Giampietrino
e che maggiormente rispecchiano una sentimentale leziosità, come
la Pietà nella sagrestia della Badìa di Morimondo, il Cristo
che porta la croce della Incoronata di Lodi, replica di un troppo sfruttato
tema iconografico, l'ancona con San Giovanni e San Giuseppe e con predella
a "grisaille" di San Magno a Legnano.
Marco d'Oggiono, forse il più debole e goffo tra i leonardeschi,
ha lasciato a Besate una sua tavola con la Madonna, San Giovanni e due
bernardiniani, del 1524, di greve costruzione piramidale, che riduce ad
uno stridente contrasto le derivazioni cromatiche e di sfumato del maestro.
La Sacra Conversazione, datata e firmata da Cesare magni nella parrocchiale
di Codogno, e che ritengo di seganlare per la prima volta, viene a sconcertare
la cronologia critica di questo secondario leonardesco. Di fronte alle
opere più note del pittore, che non sono anteriori al 1530, la
pala di Codogno - autentica che sia la data 1501 che vi appare - costringerebbe
ad anticiparne notevolmente l'attività, mostrandolo, sia pure con
giovanili esitazioni e con una impostazione ancora schematica, già
capace di autonome e personali soluzioni.
Ma il pittore che esercitò la maggiore influenza su gran numero
di artisti provinciali, sì che la sua maniera, semplificata e schematizzata
in scialbi e sdolcinati convenzionalismi, riecheggia assai spesso in affreschi
o tele popolaresche, è Bernardino Luini.
Alla sua maniera giovanile, ed alla impostazione della Madonna del 1512
nella Badia di Chiaravalle, sono assai prossimi stilisticamente gli affreschi
di una Madonna col Bambino in Santa Maria alla Fontana a Locate Triulzi
ed una Madonna con i SS. Giovanni Battista e Benedetto nel chiostro della
Abbazia di Morimondo. Per quanto meno sicura sia la attribuzione, richiama
assai il gusto del maestro un affresco del Redentore, dal cui costato
spicca il sangue che si raccoglie in un calice, nella chiesa di Vimercate.
Di maggior rilievo è la parte che il Luini ebbe nei dipinti della
chiesa di San Vittore a Meda decorata verso il 1520, e che ha tante affinità
architettoniche ed ornamentali con la chiesa del Monastero Maggiore di
Milano. Sicuramente di sua mano sono i tondi di Cristo e degli Apostoli,
alcuni dei quali interpretati con delicati toni cromatici e morbido chiaroscuro,
nel locale superiore, retrostante all'altar maggiore, nonché le
due immagini dei SS. Vermondo ed Aimone sulla tramezza divisoria, quest'ultime
tipici esempi della giovanile grazia del pittore e del suo roseo e biondo
colorito.Ma alla diretta ispirazione del Luini, se non addirittura alla
sua mano, si deve la magnifica decorazione della volta della Chiesa, che
costituisce uno dei più raffinati ed eleganti esempi di decorazione
lombarda di questo perioso.
Uno dei più insigni capolavori del maestro è il grande polittico
della chiesa di San Magno a Legnano, del 1523, dove sono affermati, in
piena maturità stilistica, i caratteristici valori plastici, coloristici
e chiaroscurali del maestro, in un insieme veramente monumentale ed assai
suggestivo.
A quel gusto narrativo luinesco, eternato negli affreschi di Brera già
alla Pelucca, si riallacciano invece - anche se più unitariamente
e solidamente costruite - le due tempere della chiesa di Paderno-Dugnano,
con il sacrificio di Abramo e la Conversione di San Paolo, eseguite verso
il 1524.
Più affrettata e con uno schematismo più convenzionale è
la Madonna col Bambino, sotto un baldacchino sorretto da angeli, nella
Chiesa di Barlassina, datata 1527. Del tutto manierata, nella sua statica
rigidezza e nella sua modesta espressione, è infine la immagine
votiva di San Gerardo dei Tintori, dipinta verso il 1529 nel Duomo di
Monza.
Echi leonardeschi e suggestioni, spesso invero ecclettiche, dai varii
seguaci di Leonardo appaiono in frequenti opere della Provincia che mostrano
interpretazioni popolaresche e di debole esecuzione o che cadono in una
artefatta maniera. Caratteristico esempio della leziosità dei leonardeschi,
secondo questo gusto provinciale, è una Madonna nella chiesa di
San Pietro all'Olmo, che - nella sua innaturale allungata posa - porta
alla esasperazione tali caratteri.
Di fronte a queste correnti rappresenta una esperienza artistica autonoma,
anche se non del tutto originale, quella che svolge a Lodi Callisto Piazza.
Il pittore torna in patria nel 1429, dopo aver lavorato a Brescia ed in
Valcamonica ed avere completato la sua formazione artistica nell'orbita
romaniniana. Egli inizia subito, con il manuale aiuto dei fratelli Cesare
e Scipione, la vasta fatica della decorazione dell'ordine inferiore della
Incoronata che, non senza pause, durerà più di trent'anni.
Alla squisita sobrietà della originale decorazione del Battaggio,
a candelabre in stucchi dorati su fondo bleu, limitata ormai all'arco
santo, il Piazza contrappone una fresca e festosa decorazione, di maturo
ed esuberante gusto cinquecentesco, a complesse candelabre policrome,
a putti e genietti danzanti, a sibille e profeti, che nelle sue tonalità
bionde, rosee e dorate dà un preminente tono ambientale al magnifico
tempio ottagono. Tra il 1530 ed il 1532 vengono eseguite le tavole con
le storie di San Giovanni Battista nella cappella omonima, nelle quali
Callisto, su di una base coloristica e tonale di tipica impronta bresciana
- del tutto insolita nel Milanese - esprime quel suo ideale di rigogliosa
venustà e di fastosa presentazione di personaggi, nel quale egli
- lento e ponderato assimilatore più che artista di genio - assume,
di fronte al Romanino, da cui deriva, l'atteggiamento artistico e spirituale
di un manierista in anticipo. L'Assunta ed il San Giovanni Battista di
Codogno, del 1533, segnano invece, nella carriera del pittore, un più
diretto e immediato contatto con la pittura veneta e tizianesca, sì
da lasciar sopsettare nel frattempo un viaggio a Venezia. A questo momento
si associano, per quanto con macchinosa pesantezza provinciale, le Sacre
Conversazioni del Museo Civico di Lodi. Le scene della Passione, dipinte
verso il 1538 nella cappella del Crocefisso alla Incoronata, segnano invece
una ulteriore svolta artistica del pittore, forse maturata durante un
viaggio in Spagna. Appare qui infatti una forzata e gonfia esigenza plastica,
una retorica tendenza drammatica, un colorito greve e plumbeo, lontano
dalle esigenze tonali di impronta bresciana, e che deriva da correnti
manieristiche dell'Italia centrale. Queste fatalmente alterano il placido
mondo artistico del pittore. La fiacca e sforzata Conversione di San Paolo,
alla Incoronata, accentua infatti tali elementi manieristici che, nelle
storie della Vergine, dipinte tra il 1553 ed il 1556, ora sui pilastri
del presbiterio, condurranno senz'altro ad una flacida e retorica decadenza
senile.
Se l'attività provinciale di Callisto Piazza aveva costituito,
nei suoi primordi, una lezione di colorismo veneto-bresciano - invero
inascoltata - il suo trasmigrare stilistico verso una ispirazione manieristica
segna la tendenza che assumerà nel Milanese la reazione agli ultimi
epigoni leonardeschi.
L'ultimo artista che, attraverso Gaudenzio Ferrari, ripeta estremi e vaghi
accenti leonardeschi, infiacchiti in una monotona e stanca interpretazione
provinciale, è Bernardino Lanino negli affreschi del presbiterio
di San Magno a Legnano, dipinti tra il 1560 ed il 1564, con manierata
grazia e soavità di colore.
Ma è una timida voce che si spegne senza echi.
Intanto già prevale un greve manierismo, anche se con qualche accenno
lombardo, nelle storie di San Giovanni, affrescate da Giuseppe Mdea, nel
1562, nel transetto del Duomo di Monza, e nei contrapposti affreschi decorativi,
del bresciano Lattanzio Gambara, del 1570, dove ecclettici schemi, di
esteriore venustà e di un cerebrale plasticismo, sopraffanno le
derivazioni dal Romanino e dai Campi.
Nel prevalere del manierismo, la corrente che anche in Provincia appare
la meno soffocante, se non molto più vitale, è quella rappresentata
dai cremonesi Campi.
Opera di collaborazione tra Giulio, Antonio e Vincenzo Campi, è
la Pentecoste affrescata nel catino absidale della chiesa di Trezzo, di
una tumultuosa e gonfia enfasi, in cui il plastico ed energico sbalzare
delle figure è mal frenato entro il classicheggiante schema architettonico
del fondo.
Allo stile di Giulio Campi è invece prossima la decorazione ad
affresco, con scene del martirio del Santo, nell'abside di Santo Stefano
a Vimercate, che, malgrado il prevalere di figure manieristiche ed accademiche,
ha ancora dolci accenti coloristici che richiamano una derivazione veneziana.
Di Bernardino Campi, forse con l'intervento di Giulio, è la bella
Madonna con Santi, del 1567, affrescata in San Francesco a Lodi, di placide
e soavi forme e di biondo e sfumato colorito, mentre una contemporanea
Pietà in San Lorenzo e sopraffatta da elementi manieristici di
esteriore drammaticità e di sforzo plastico che non esitano a trovare
ispirazione nello stesso gruppo della Pietà di Michelangelo. Capolavoro
di Bernardino sono tuttavia glia affreschi con storie di Cristo nella
chiesa di San Colombano al Lambro, staccati dalla cappella del locale
Castello, a cui va collegata una Trinità, della stessa provenienza,
a Mirabello di Senna Lodigiana. Assai più che non nei frammenti
decorativi trasportati a Brera, si rivela in queste opere, eseguite tra
il 1576 ed il 1581, l'ideale formale di serena venustà e di armonica
corretta composizione che, con colorito lieve e rugiadoso e trasparenti
tonalità persegue il pittore.
Al più debole Antonio Campi va invece attribuita una slegata e
minuta Crocefissione nel convento di Santa Maggiore in Carrobbiolo a Monza.
E alla maniera di questi, ma con maggiore povertà espressiva, può
ricollegarsi un Crocefisso ad Ospedaletto Lodigiano, opera del cremonese
Marcantonio Mainardi detto il Chiaveghino.
Mentre echi campeschi si ripetono spesso in anonime opere della Provincia,
dimostranti come tale gusto fosse ormai diffuso, scorgiamo una transizione
dalla visione di Bernardino alle idealità seicentesche in Giovanni
Battista Trotti detto il Malosso, come documentano, negli ultimi decenni
del secolo, la pala con l'incontro di Sant'Antonio da Padova ed Ezzelino
in San Francesco a Lodi e il perdono d'Assisi nella Chiesa di Bertonico.
Di fronte a questi apporti artistici di regioni finitime (e a questi va
aggiunto quello, invero mediocrissimo, di Guglielmo Caccia detto il Moncalvo
che lasciò una stentata Decollazione del Battista nel Duomo di
Monza e deboli Sacre Conversazioni in Santa Maria in Carrobbiolo), la
povertà artistica dei pittori locali può essere considerata
nella tela di Cristo e il fariseo che porge la moneta, nel Duomo di Monza,
o nelle rigide e dure opere dei fratelli Dela Rovere detti Fiammenghini
(Madonna nel Convento di S.M in Carrobbiolo a Monza; Deposizione nella
Gall. Civica di Monza; affreschi a Cassano).
Della attiva ripresa pittorica che si manifesta a Milano sul principio
del Seicento abbiamo notevoli manifestazioni in Provincia.
Sostanzialmente un macchinoso manierista, mitigato da suggestioni emiliano-correggesche,
appare Camillo Procaccini nelle tele con le storie della Vergine in San
Francesco a Lodi, dipinte verso il 1618, e dalla sua maniera, pur con
uno sfoggio di derivazioni raffaellesche, discende Enea Salmeggia detto
il Talpino che nella stessa Chiesa dipinse in zuccherose tinte la Madonna
di Caravaggio, la Fuga in Egitto e la Presentazione al Tempio (1623).
Del suadente stile di Giulio Cesare Procaccini, dalla languida grazia
e dal morbido sfumato, roseo e luminoso, abbiamo un assai significativo
San Giusepe nel Duomo di Monza, ben modulato nei trapassi chiaroscurali,
mentre la Gallaria Civica possiede una Santa Martire che è libera
replica dell'analogo soggetto a Brera. Assai prossima alla maniera del
maestro bolognese-milanese è una Annunciazione nel Duomo di Lodi,
opera di bottega.
I molli preziosismi cromatici e luministici di Giulio Cesare vengono del
tutto sopraffatti da una concezione tenebrosa e macchinosa nelle vaste
tele che l'ultimo rampollo della famiglia, Ercole junior, dipinse, con
soggetti biblici, nel 1632, nel Duomo di Lodi, ed in quelle posteriori
nel presbiterio del Duomo di Monza, prossime di gusto, e con gli stessi
crudi sbattimenti luministici, ai contigui affreschi biblici del faticoso
Giuseppe Danedi detto il Montalto.
Dello stile caratteristico di G.B. Crespi detto il Ceramo, dalle larghe
e pigmentate stesure coloristiche e dai forti contrasti chiaroscurali,
abbiamo un chiaro esempio nella bella pala di San Vittore a Meda, sapientemente
costruita nei solidi piani, nele trasparenti velature, nelle ombre avvolgenti.
La sua maniera alimenta, come quella del Procaccini, una larga serie di
minori e, generalmente, anonime opere che tuttavia ne appesantiscono i
risultati in deficenze cromatiche e in sforzi espressivi. Non sembra invece
avere esercitato particolare influenza il drammatico stile del Morazzone,
che lasciò di sé solo debolissimi e contrastanti esempi.
Larghissima eco ebbe invece Daniele Crespi. Mentre è alquanto pesante,
nella ripetizione di tradizionali schemi, la pala della Madonna con S.
Carlo e S. Francesco, a Codogno, la Galleria di Monza possiede un superbo
capolavoro nel martirio di San Lorenzo, di un poderoso effetto drammatico
nella violenza chiaroscurale, che fa scattare in primo piano, in piena
evidenza, le contrastanti membra del Santo, circondate dal graduale sprofondarsi
dell'ombra trasparente.
Da lui traggono qualche spunto, pur svolgendolo in un enfatico impeto
barocco ed in un colorito alquanto rugiadoso, i fratelli G. Battista e
G. Francesco Lampugnani che, nella loro Legnano, lasciarono decorazioni
in una cappella di San Magno ed un più consistente affresco, con
la storia della mancata fuga da Milano del Santo, nella Chiesa di Sant'Ambrogio.
Riallacciantesi a G. C. Procaccini ed alle esperienze della scuola bolognese,
dotato di morbidi e caldi valori tonali, Carlo Francesco Nuvoloni si affida
più alla drammatica Flagellazione, dal forte chiaroscuro e dai
pastosi toni, in San Francesco a Lodi, opera giovanile, che alle più
macchinose e guaste tele bibliche di Vimercate. Ma il capolavoro del Nuvoloni,
nella Provincia, è la intima Cena di Emmaus del Duomo di Monza,
dove le larghe espressive figure tra cui non manca, realistico particolare
di gusto lombardo, quella dell'oste, sono raccolte nel placido lume, con
un nitore di piani ed una comprensione dei valori luministici che fa quasi
supporre che il pittore abbia visto, anche se non compreso, esempi caravaggeschi.
Nello stesso Duomo il fratello Giuseppe, pur sfruttando un generico schema
popolaresco, si mostra abile interprete di pacati effetti tonali, nella
tela di Tobiolo guidato dall'angelo.
Relativamente scarsi sono invece gli apporti di artisti di altre regioni
alla pittura del Seicento nella Provincia di Milano: al Guercino è
attribuita una bella Visitazione nel Duomo di Monza, di serrata composizione
e di delicato digradare di piani dalle calde tinte alla trasparente penombra;
a Mattia Preti una Madonna, di sapido e ricco colore, e di cordiale immediatezza,
nella Galleria di Monza; ivi una Annunciazione di Andre Vicentino attesta
la povertà del manierismo veneziano, mentre la robusta tela di
Cristo a l'Adultera del fiulano Antonio Carneo, nella prontezza della
sue espressioni e nel caldo colorito in contrasto con l'ombra, documenta
la penetrazione nel Veneto di derivazioni da Luca Giordano; mediocre esempio
è quello del Reni al quale invece è attribuito un lezioso
San Giuseppe.
Ma, sul finire del secolo, un più vitale contributo arreca, nella
molteplicità delle sue esperienze pittoriche, attinte e maturate
in un laborioso pellegrinaggio artistico, Sebastiano Ricci. La vasta tela
di David che danza avanti all'arca della chiesa di Somaglia (a cui forse,
nel paesaggio, collaborò Marco Ricci), pur eccletticamente risentendo
derivazioni carraccesche e cortonesche e qualche vago accenno alla influenza
del Magnasco, segna già, nel suo snodato movimento, nel respiro
paesistico e nel suo svariante e limpido lume, il trapasso al Settecento.
Meno significativa, e, secondo la tradizione, ripudiata dallo stesso pittore,
è la scena di Teodolinda e di Agilulfo che fondano la Basilica,
nel Duomo di Monza, in cui gli accenti cortoneschi prevalgono, pur con
qualche fresco brano di veneto colorito.
Essa appartiene ad un vasto complesso di figurazioni di varii episodi
della Basilica monzese, appeso nella navata ed esegito sul finire del
sec.XVII o al principio del XVIII da Filippo Abbiati, scolaro del Nuvoloni,
da Andrea Porta, da Francesco Bianchi e da Anton Maria Ruggeri, che variamente
rapresentano - non senza esitazioni, deficenze, enfasi e ridonanze - la
transizione ad una visione settecentesca.
Ben più sicuro e consapevole di sé un altro movimento che,
pur riallacciandosi ai precedenti bolognesi del Lanfranco, sembra trarre
dai cortoneschi l'impulso. Esso afferma, con una concezione prevalentemente
decorativa, un vorticoso ed audace impeto barocco, dagli agili e audaci
scorsi, dalle luminose penombre, dai colori squillanti, nella Incoronazione
della Vergine di Andrea Lanzani e nella Incoronazione di Ester di Stefano
Legnani, eseguite nel 1699 nel nuovo coro barocco della Incoronata di
Lodi. Se nelle pale d'altare (ad es. a Cassano d'Adda e a S.M. delle Grazie
a Legnano) il Legnani mostra una accademica leziosità a cui si
associa un tono porcellanato, egli continuerà a prodigarsi in questo
impeto decorativo ed in questa illusionistica pittura nella volta del
Duomo di Monza, determinando il gusto di una serie di mediocri e macchinosi
artisti locali che, nella prima metà del XVIII sec. Attenderanno
alla decorazione del Duomo. Con essi concorre, in meno fiacche ma pur
sempre accademiche forme, il cremonese Angelo Borroni, sinchè verso
il 1740, Carlo Carloni, nelle volte delle navate e sulle apreti del transetto,
riafferma una pittura illusionistica e di aerei scorci, fresca e scintillante,
che alle remote origini cortonesche congiunge derivazioni cromatiche veneziane.
Accanto al Carloni, che vi dipinse impetuosamente la volta, troviamo in
San Filippo a Lodi il milanese Fedrico Ferrari che si specializzerà
in una stucchevolissima decorazione a finte architetture barocche in iscorcio,
collegate da serti di fiori, ripetute sino alla sazietà in molti
centri della provincia (ad es. Abbadia Cerreto) tra gli altri dal canonico
bustese Biagio Bellotti. Egli si rivela invero ben iù macchinoso,
massiccio e povero di fantasia di quanto non ci appaia, nella sua derivazione
bolognese, il fiorentino Sebastiano Galeotti nella sue quadraturistiche
ma alquanto grevi decorazioni parietali nel presbiterio di San Francesco
a Lodi ed in Santa Maria delle Grazie a Codogno.
Langue invece il campo della pittura figurativa settecentesca, anche se
vieppiù si moltiplicano le anonime pale d'altare di un lezioso
ed ecclettico convenzionalismo, senza nerbo e senza sostanza. Per trovare
delle eccezioni a questa dilagante mediocrità bisogna ricorrere
ad un superbo ritratto a mezza figura di un gentiluomo del Museo di Lodi,
così prossimo, nel soffice e prezioso gioco delle trine del costume
e nel vivido lampeggiare degli occhi, alla maniera di Vittore Ghislandi,
o ad opere occasionalmente pervenute da artisti di altre regioni. Tra
queste, nella Galleria Civica di Monza, ricorderemo un delicatissimo e
luminoso suonatore di flauto, attribuito al Piazzetta, rapido di trasparente
pennellata e di velati tocchi, ed un realistico e succoso ritorno dalla
caccia di Antonio Amorosi.
Così senza precorrimenti, senza sensibili trapassi - che non siano
quello, del tutto negativo, di una generale sterilità creativa
- senza precedenti (non sapremmo trovare che un solo altro esempio, d'altronde
più tardo nel Prometeo di Gaspare Landi alla Galleria di Monza),
ci troviamo inaspettatamente di fronte, nella Rotonda della Villa Reale
di Monza, alle storie di Eros e di Psiche, in cui, non senza tracce di
un colorismo settecentesco, in talune briosità di fresco tocco,
Andrea Appiani ci impone la visione formale e plastica della pittura neoclassica.
SCULTURA
A differenza di quanto abbiamo notato per la pittura, non è possibile
per la scultura della Provincia di Milano, prospettare uno sviluppo cronologico,
organico e continuativo. L'importanza della scultura lombarda si rispecchia,
nella Provincia, che in un frammentarismo di opere, insufficienti di per
sé, e prese una per una, a dare un giusto concetto dell'afermarsi,
dello svolgersi e dell'intrecciarsi di correnti e di tendenze artistiche
nel Milanese.
Abbondanti, anche se invero non di eccezionale importanza, sono i contributi
della Provinci alla scultura preromanica e romanica.
Mentre le colonne della Basilica di Agliate, del IX sec., sono sormontate
da capitelli della bassa romanità provenienti da materiale di spoglio,
tra cui è notevole quello con stilizzati delfini affrontati da
un tridente, sono relativamente scarsi i pezzi coevi alla costruzione,
pregevolissima nell'architettura, ma povera di particolari decorativi.
Ricorderemo, generici e rozzi fregi ad intrecci viminei negli stipiti
originarii del portale; i sette capitelli della cripta, cubici, scantonati,
con rozze incisioni parallele a schematiche palmette; un altro di tali
capitelli, di miglior fattura, con caulicoli a volute di foglie su alte
nervature e con, nelle fronti, fogliette a incisioni parallele, entro
guscio incavo, affine a quelli della cappella preromanica di San Satiro
a Milano e ad esempi preromanici francesi.
Notevole importanza ha ed ha avuto per la scultura romanica la chiesa
di San Bassiano a Lodivecchio, riedificata dopo la distruzione dei milanesi
del 1111 e nuovamente distrutta nel 1158. La chiesa attuale risale al
primo quarto del sec.XIV, ma alla sommità dei piloni vennero collocati
gli imponenti capitelli della chiesa primitiva, bello esempio di maestranze
romaniche provinciali. Taluni di questi capitelli sono scolpiti a figure
mostruose a forte aggetto e con ampi e sintetici piani; la maggior parte,
scantonati agli angoli, hanno incisioni di foglie lanceolate a nervature
parallele; altri ancora sono sbalzati a grossi nuclei ovoidali.
Da tale chiesa, secondo la vetusta tradizione, vennero asportati alcuni
importnati pezzi per ornare la cattedrale della nuova Lodi, sorta subito
per volontà del Barbarossa. Al 1163 si fa risalire infatti il trasporto
del bassorilievo in arenaria con l'Ultima Cena, dalle arcaiche figure
con teste sfingee, aguzzi menti e grandi occhi sbarrati, la cui unica
esigenza di movimento è data da Giovanni che reclina il capo sul
petto di Cristo, opera che nella sua rozzezza mostra un vago e rozzo precorrimento
della maniera di Nicolò. Affine di gusto e di tecnica è
il sovrastante bassorilievo di Sant'Ambrogio e San Bassiano, già
con uno sforzo di realistica individuazione nel panneggio dei loro episcopali
paludamenti. Da Lodivecchio si vorrebbe pure proveniente il dossale dell'altare
di San Bassiano, nella cripta, con le figure di busto di San Bassiano
benedicente tra S. Pietro e San Gaudenzio, sotto una archeggiatura a tutto
sesto. E' opera di spiccata energia plastica, che tuttavia appare più
prossima alla costruzione della nuova Cattedrale di Lodi, della seconda
metà del XIII sec. Parimenti è da sconfessarsi la tradizione
locale che vorrebbe provenissero da Lodivecchio, sia il portale maggiore
che i laterali della Cattedrale di Lodi. Essi invece sono opera della
seconda metà del XII sec. (il protiro della facciata è invece
del 1284). Particolarmente notevole è il portale maggiore, ad articolato
sguancio, che nelle acuite e arcistiche figure di Adamo ed Eva, negli
stipiti, già manifestanti uno sforzo di stilizzazione, si accosta
a correnti preantelamiche. Affine addirittura alla maniera dell'Antelami.
E quindi da ritenersi non anteriore agli ultimi decenni del XII sec. è
la lunetta del portale, con Cristo in trono benedicente, la Madonna, in
posizione leggermente trasversa, ammantata, con soggolo, che alza le mani
aperte e San Bassiano inginocchiato, di profilo, opera che accanto ad
una maggiore plastica fluidità, ha già una esigenza di più
complessa e spaziale composizione, pur dominata da una interessante ricerca
di stilizzata coerenza. Prossimi per età e stile sono i due capitelli
che affiancano il portale, con guaste e grottesche figurazioni simboliche,
a forte e bene articolato rilievo.
Assai rozzi, di scadente fattura locale, sono invece alcuni frammenti,
del XII sec. Provenienti da Lodivecchio, nel Museo di Lodi. Essi hanno
un preminente e modesto valore decorativo; solo uno con la impacciata
figura di San Bassiano, ha esigenze figurative, ma anche piuttosto generiche.
Al secolo XII appartengono pure alcuni frammenti decorativi ed un arco
con scolpite sommarie e gustose scene di caccia con vivace resa, tra stilizzata
e realistica, nonché frammenti di capitelli e di decorazione a
eleganti motivi zoomorfi nella chiesetta di Santa Maria di Calvenzano
(Vizzolo Predabissi), che chiaramente rispecchiano nei raffinati stilismi
la loro origine cluniacense e contatti con la scultura d'oltralpe.
Ad una unica mano, e ad un rozzo scultore popolaresco locale, sono da
attribuirsi, nella interessante chiesetta romanica di San Colombano a
Vaprio d'Adda, i capitelli del presbiterio a forte ed articolato rilievo,
nei loro mostruosi intrecci, le due lunette dei portalini minori, con
S. Colombano ed un Santo vescovo che uniscono goffe ricerche realistiche
ad un equilibrio decorativo. Invece più disorganico appare il portale
maggiore, con isolate figure d'angelo stilizzate che si alternano a isolate
forme mostruose a forte aggetto.
Nel sec. XIII è anzitutto al Duomo di Monza che va rivolta l'attenzione.
Sei capitelli dei piloni, hanno agili e robuste figurazioni a tutto rilievo,
con rude vigore plastico, che alternano realistici mostri a figurazioni
zoomorfe od ornamentali più equilibratamente dettagliate e stilizzate.
Di maggior pregio è la più tarda (II metà del XIII
sec.) lunetta del portale maggiore. E' divisa in due zone: nella inferiore
è rappresentato il Battesimo di Cristo; nella superiore Teodolinda,
affiancata dai famigliari, che dona alla cattedrale monzese gli oggetti
del Tesoro, rappresentati con una certa esattezza. L'opera ha già
un nitido senso spaziale ed un tranquillo equilibrio compositivo, pur
nella realistica ricerca di movimento di talune delle figure, esili ed
allungate entro i panneggi animati dell'espressivo valore delle linee
stilizzate. Essa, per quanto con più tardo e maturo sviluppo, si
riallaccia alla maniera ed al gusto di Guido da Como.
Scarsa importanza hanno invece i gevi capitelli della Badia di Morimondo,
con generiche e ritardatarie decorazioni, mentre quelli della chiesa di
San Francesco a Lodi, posteriori al 1288, hanno più varietà
di motivi che pregi artistici. Anche il portale a sguancio della stessa
chiesa ripete senza originalità il prototipo di quello maggiore
della Cattedrale, a cui, nel 1284, venne aggiunto il protiro, esile ed
elegante, sorretto da leoni stilofori.
Ad un periodo alquanto tardo del sec. XIII appartiene la decorazione in
cotto del rosone e delle finestre della Badia di Morimondo, primo e timodo
esempio di quell'impiego della terracotta, con finalità ornamentali,
che diventerà gusto decorativo addirittura tradizionale nella Lombardia.
Il sec.XIV mostrerà un più elegante ed articolato uso delle
decorazioni della terracotta, che andranno facendosi sempre più
minute e fiorite, nella facciata della riedificata chiesa di San bassiano
in Lodivecchio, del primo quarto del secolo, e, più tardi, in quella
della Badia di Viboldone (1349), dove si aggiungono anche figure statuarie
in terracotta; in quelle di San Lorenzo e Sant'Agnese in Lodi, dove già
penetrano slanciati elementi gotici; ed infine, sullo scorcio del secolo,
in quella di Santa Maria in Strada a Monza - invero assai rimaneggiata
- tutta a trafori, pinnacoli, archeggiature trilobe, con al centro il
vasto rosone dai complicati ornati a forte aggetto.
In San Francesco a Lodi, una lastra tombale ad altorilievo, con la figura
di Sant'Antonio benedicente, il capo spiccante su una cavità a
conchiglia, è opera non priva di gotiche stilizzazioni, nella sua
modesta espressiva, di un frate Delay de Brellanis, lodigiano, uno dei
pochi scultori locali che escano dall'anonimo, ed è datata 1304.
Interesse non soltanto artistico, ma folcloristico, hanno nella chiesa
di San Bassiano a Lodivecchio, due altorilievi: l'uno, datato 1323, raffigurante
un bovaro a cavallo che sospinge una pariglia di buoi; l'altro, coevo,
riproducente un calzolaio al lavoro, entrambi simboli delle locali corporazioni
dei boari e dei calzolai. Un pezzo affine a quest'ultimo, con la sommaria
ma gustosa resa realistica di una bottega di calzolaio, trovasi al Museo
di Lodi.
Della seconda metà del secolo, improntate sicuramente alla maiera
di Balduccio da Pisa sono una gotica e maestosa Madonna sulla facciata
di Santa Maria in Istrada a Monza ed una pila per acquasanta nella Badia
di Morimondo, in cui il basamento piuttosto greve è sormontato
dalla elegante statuetta della Vergine, drappeggiata entro il manto dalle
caratteristiche falcature del gotico pisano.
Mostra invece una impronta campionese, pur nel prototipo alquanto convenzionale,
la pietra tombale, già terragna, datata 1365, del prevosto Guglielmo
Villa, nella Badia di Viboldone, da lui tanto beneficata.
Pure verso la metà del secolo è da ritenersi eseguito quell'interessante
bassorilievo del Duomo di Monza che, già con realistica aspirazione
e con un certo brio narrativo, descrive la cerimonia della incoronazione
a Re d'Italia di un Imperatore tedesco, per opera dell'arciprete di Monza,
presenti gli Elettori in varii atteggiamenti nei loro pomposi manti ed
i rappresentanti del Comune e del popolo della città che, mentre
ricevono una conferma dei loro privilegi, assicurano devota fedeltà:
opera che costituisce forse più un notevole documento storico che
un capolavoro artistico.
La vasta corrente dei maestri campionesi è egregiamente rappresentata
nella Provincia.
Agli ultimi decenni del sec. XIV, ed ante 1396, risale l'ambone marmoreo
(evangelicatorio) del Duomo di Monza, opera di matteo da Campione, che
compensa il non bello effetto dell'arco ribassato a cui s'imposta il cassone,
con la ricchezza delle gotiche decorazioni e con la plastica strutturalità
delle molte figure ad altorilievo di Apostoli e Santi, un po' tozze nel
complesso gotico avvolgimento dei pesanti panneggi.
Capolavoro del maestro rimane la facciata del Duomo di Monza, singolare
fusione di elementi gotici lombardi e di una salda strutturalità
pisana ravvivata dal coloristico effetto della dicromia bianco-verde delle
fascie marmoree. Matteo da Campione vi ha profuso anche nei particolari
(finestre, pronao, rosoni, ecc.) la sua perizia di decoratore in svelta,
elegante e squisita fioritura marmorea di trafori, aggetti, elementi floreali,
ecc.: a volte concepiti con misurato equilibrio e agile senso plastico,
come nelle stilizzate cornici a fogliami delle finestre inferiori; a volte
- come nella vasta inquadratura del rosone - elaborati con quel gusto
di trina marmorea già insito nel gusto lombardo così propenso
per il particolare minuto e squisito e per la trita affastellatura degli
ornati.
Altro degno esempio dell'arte dei maestri campionesi è l'altare,
con otto altorilievi della vita della Vergine, nella chiesa di Carpiano,
nel quale si è voluto ravvisare l'originario altare della Certosa
di Pavia, eseguito nel 1396, sembra da Giovanni da Campione, e rimosso
nel sec. XVI quando venne eretto il nuovo altare, confinando il più
antico in una "grangia" monastica dipendente dalla Certosa.
La narrazione si svolge lenta ed ingenua, quasi impacciata nella elaborazione
di composti schemi; lo scultore ripone ogni sforza nel dare pieno e tondeggiante
rilievo alle forme sode ed energiche.
Strettamente affine al gusto ed alla tecnica dei maestri campionesi è
infine, nella chiesa di Bernate Ticino, una lunetta con la Vergine in
falcato manto che ha accanto San martino in veste di cavaliere con giaco
in maglia di acciaio ed elmo, piamente adorata dal priore inginocchiato,
opera di fine ed equilibrata fattura.
La profonda radicazione in Lombardia degli elementi gotici si rivela in
non poche sculture del Quattrocento, a partire dalla statua in rame di
San Giovanni Battista, sulla facciata del Duomo di Monza per giungere,
in epoca già tarda, all'altorilievo di San Bassiano, fregiato dai
simbolici cervi, e ad una lapide tombale in San Francesco a Lodi, affine
ad un'altra nel Museo di Lodi, ed alla tomba terragna di Taddeo Fissiraga
in San Pietro a Lodivecchio, opere nelle quali un più equilibrato
senso plastico non riesce a liberarsi da convenzionalismi gotici, svolti
spesso con popolare, schematica modestia.
Timide, scarse ed occasionali sono le opere di scultura nelle quali -
e siamo già nella seconda metà o addirittura alla fine del
XV sec. - si afferma il Rinascimento, con quel carattere di esuberanza
decorativa, di trite ed affastellate articolazioni, e di grazioso, calligrafico
svolazzo che troverà il culmine nell'arte dell'Amadeo.
Più che non a questi è ancor prossima al gusto del Mantegazza
una raffinata cornice marmorea d'altare nella chiesa di Mettone, presso
lacchiarella, a delicatissimi fregi floreali, con figure di Santi a bassorilievo
di un minuto e perticolareggiato realismo, dai fratturati piani, nervosamente
rilevati ed angolose coste. E' tutt'altro che improbabile che l'opera,
sino ad ora ignorata, provenga dai laboratori della non lontana Certosa
di Pavia.
Caratteristiche opere dell'Amadeo sono invece due tondi con nervosi angeli
reggiscudo, sulla facciata della chiesetta di Carpiano, che uniscono la
tendenza ad una morbida grazia al panneggiamento involuto, a spezzature
e svolazzi. Ivi richiamano ai maggiori esempi della Certosa di Pavia -
da cui pure provengono - due medaglioni a bassorilievo con le teste di
Pompeo, re di Tessaglia e di Cicerone, e due più manierate e poco
espressive statue di Apostoli.
Al gusto dell'Amadeo, ma assai misurato nei partiti decorativi, richiama
il portalino in pietra tenera della Incoronata di Lodi, eseguito nel 1490,
forse su ispirazione del Dolcebuono. Ed elegante lavoro decorativo sono
i capitelli marmorei dell'antistante pronao, di poco posteriori, in cui
la esuberanza decorativa lombarda embra trovare un freno nel modello bramantesco
del chiostrino di Santa Maria delle Grazie.
Nell'interno della Incoronata è da assegnarsi al Battaggio - quindi
tra il 1488 e l'89 - la originaria decorazione dei piedritti, dell'arco
santo e della superiore trabeazione, con un elegante ed equilibratissimo
sviluppo di elementi decorativi floreali in stucco dorato su fondo azzurro,
equilibrio ornamentale che riappare nella prossima volta a cassettoni
in stucco dorato della Cappella di San Giovanni Batt., con un effetto
di prospettiva illusoria che prende lo spunto dall'esempio bramantesco
del coro di San Satiro a Milano. Al Battaggio vanno poi assegnati i sedici
tondi con i busti di terracotta a tutto rilievo, negli archivolti delle
singole cappelle, che sono strettamente affini di gusto, benchè
più rozzi, a quelli eseguiti nella sagrestia di San Satiro a Milano
dal De Fondutis, col quale il Battaggio aveva collaborato a Piacenza e
nel Palazzo Varesi a Lodi.
Lontano dal minuto e aggraziato decorativismo lombardo ci porta l'energico
pronao del Bramante in Santa Maria Nuova di Abbiategrasso, il cui ordine
inferiore reca la data 1497, mentre l'ordine superiore, incompiuto, è
da ritenersi proseguito, sempre su disegni del maestro, sin verso il 1505.
Una visione strutturale e plastica, di concentrati effetti, di un classicismo
originale e fecondo che anima e potenzia ogni articolazione, ogni aggetto,
ogni rientranza, e arricchisce gli splendidi capitelli, in pieno contrasto
con gli archi ed i tondi in terracotta dell'atrio, ancora di pretto carattere
lombardo.
E' alla fine del Quattrocento che vediamo iniziarsi (di significativi
esempi antecedenti non sapremmo ricordare che un forte crocefisso trecentesco
a Lodi) quella scultura in legno che, specialmente nel Sei e Settecento,
terrà il campo.
Del 1492 è infatti una ancona lignea dorata e policroma del lodigiano
Francesco Lupi nella cripta della Cattedrale di Lodi che, con gusto popolaresco,
affastella, nella minuzia delle sue mosse figure e dei suoi triti aggeggi
ornamentali, elementi realistici e convenzionalismi gotici ritardatari,
esuberanze decorative e rozzi manierismi.
Della stessa epoca sono, nel Museo di Lodi, i frammenti della ancona lignea
che costituiva un tempo l'altare maggiore della Incoronata. Le formelle
poicrome, di una rozza ma vivace vena popolaresca, con le storie della
Vergine dalle allungate figure staccate dal fondo, con gustosa resa degli
eleganti e coloriti costumi del tempo, vennero intagliate dai lodigiani
Buongiovanni e Bassiano Lupi; invece la predella a eleganti fregi dorati
su fondo bleu e dodici formelle con slanciate figurine di Sibille, in
sfarzosi e policromi manti mollemente falcati o squisitamente ricercati,
appartengono, a quanto sembra, ai milanesi Giovanni Pietro ed Ambrogio
Donati.
Di questa scultura in legno, particolarmnte significativa nel Lodigiano,
abbiamo infine altro esempio, all'inizio del XVI sec., nelle ricche e
raffinate decorazioni a intreccio di girali floreali dorati della cantoria
e nel cassone dell'organo della Incoronata, opera di un Daniele Gambarino,
lodigiano.
Una misura ed un equilibrio già classicheggianti mostra il bel
camino in pietra tenera, nel Museo di Lodi, eseguito nel 1510 per la Incoronata
dal cremonese Gaspare Pedoni, la cui trabeazione a putti reggenti encarpi
ed a teste medusee è interrotta dal trito tondo con l'Incoronazione
della Vergine. Altri notevoli esemplari di camini - Quattro e Cinquecenteschi
- si trovano nel Museo di Legnano.
Al caratteristico gusto lombardo, già reso pesante e fastoso da
un inserirsi di spunti classicheggianti nel minuto e calligrafico decorativismo,
ci riporta il ricco monumento funerario a Bassiano Da Ponte nel Duomo
di Lodi, opera assai prossima alla maniera di Andrea Fusina, come lo è
parimenti la più semplice attigua lapide funeraria di Oldrado da
Ponte. Di più generica fattura, ma con affini caratteri, è
la lapide tombale varesi nel Duomo di Monza, anch'essa concepita come
rinascimentale targa chiusa in ornamenti figurativi, girali e cartocci.
Con una certa pesantezza di ispirazione e con debolezze di fattura richiamano
il gusto dell'Amadeo le decorazioni di due finestre a bifora, sulla facciata
del Duomo di Lodi, bipartite da fregiata candelabra.
Assai più significativa della scultura in marmo o in pietra, che
da questo momento cade in un gusto generico e stentato, con manierate
imitazioni classicheggianti (vedasi, ad es., il monumento Taberna, nella
Cattedrale di Lodi, della fine del sec. XVI), appare d'ora in poi la scultura
e l'intaglio in legno.
Ad essa danno qualche apporto artisti forestieri alla zona, come fra Giovanni
da Verona di cui nella chiesa di San Bernardo a Lodi, trovansi undici
egregie tarsie, affini a quelle di Santa Maria in Organis a Verona, e
che sono un relitto della sua ultima ed incompiuta fatica. Talune di esse
assumono a partito decorativo oggetti simbolici; altre sviluppano le predilezioni
prospettiche dell'artista in singolari architetture di fantastiche città.
Ma si formano intanto, con carattere artigianesco dei maestri locali,
spesso assai pregevoli, come quel Francesco Giramo da Abbiategrasso che
nel 1522 eseguì lo splendido coro ligneo della Abbazia di Morimondo,
dalle chiare e misurate partizioni strutturali e dalle belle tarsie ricche
di effetti decorativi (nei simboli stilizzati assai più che nelle
grevi figure di Santi), o come quei fratelli Corio che nella II metà
del sec. XVI eseguirono in San Magno a Legnano il macchinoso tabernacolo
ligneo a varii ordini con nicchie e statuette, gareggiando con gli anonimi
artefici locali a cui si deve il più semplice coro.
Egregio lavoro di anonimi, del 1577, è il monumentale coro ligneo
del Duomo di Monza, sapiente nelle articolazioni delle sue membrature
strutturali e decorative.
Un gusto più pesante, nell'insistente ripetersi di formelle con
archi in prospettiva, sullo sfondo dei quali spiccano, dipinte, figure
di Santi, denota invece il coro ligneo in San Lorenzo ed il pulpito in
Santa Maria del Sole, a Lodi, opere eseguite verso il 1570 dal milanese
Anselmo de' Conti.
In tutt'altro campo, vanno menzionati i robusti e pesanti stucchi in San
Lorenzo a Lodi, opera di Antonio Abbondi da Ascona, che nel loro mosso
e giganteggiante rilievo già segnano il prevalere di un gusto manieristico
precorritore di tendenze barocche. Ad essi fanno contrasto le lineari
decorazioni a stucco, di classicheggiante eleganza, eseguite nel 1614
dal lodigiano Battista Reddi in una cappella di San Francesco, che non
lasciano presentire quel largo ma macchinoso e greve impiego degli stucchi,
così frequente nelle chiese del milanese del Sei e del Settecento,
con un intento di fasto decorativo, ma assai spesso povero di pregi artistici.
Anche il Seicento dà notevoli apporti alla scultura in legno.
Al milanese Carlo Garavaglia si attribuiscono il coro ligneo di Villanova
Sillaro e quello, posteriore, di Ospedaletto Lodigiano, entrambi assai
articolati negli aggetti, negli intagli, nelle tarsie, nelle decorazioni
dei postergali. Nella stessa Badia di Ospedaletto l'ancona lignea pensile,
in fondo al presbiterio, è uno dei più caratteristici esempi
di macchinoso barocchismo, dalle forti e colossali strutture, a cui sia
giunta la scultura lignea nella zona.
Carattere popolaresco, ma di un equilibrato effetto, ha il coro della
Chiesa di Badia Cerreto, del 1679, opera del milanese Stefano De Legnani.
Il culmine della scultura lignea barocca è tuttavia segnato dal
coro della Incoronata di Lodi, eseguito nel 1699 da Carlo Antonio Lanzani,
ricco di uno snodato movimento, di un fastoso aggetto, con intelligenti
giochi di luce e d'ombra, di un forte rilievo nelle figure scolpite.
All'inizio del sec. XVIII l'altare marmoreo della Incoronata, ornato da
marmi preziosi, di una agile e mossa struttura, le cui articolazioni sono
arricchite da applicazioni e da bronzi a sbalzo ed a traforo, costituisce
il capolavoro tra gli altari barocchi della zona, che sono invece assai
spesso di un carattere strutturale e decorativo generico e convenzionale.
Anche il Settecento vede una notevole fioritura della scultura lignea
che si propaga spesso, con un carattere popolaresco, nelle statue lignee
della Vergine o di Santi che, frequentemente deturpate da stolte ridipinture,
ornano molte chiese. Ci limiteremo a menzionare, tra i più raffinati
esempi di quest'arte, la bella madonna in legno dorato della Chiesa di
San Vittore a Meda, opera di un anonimo, probabilmente locale.
Il cosidetto "armadio delle reliquie" in una sagrestia del Duomo
di Monza, è uno degli ultimi esempi della scultura lignea del sec.
XVIII, con una ricchezza e complessità decorativa che segnano il
pieno trionfo del rococò.
Anche nel campo della scultura decorativa il trapasso al neoclassicismo
- che può trovare il più elequente simbolo nel fastoso altare
marmoreo del Duomo di Monza, disegnato nel 1798 da Andrea Appiani - è
repentino e senza precorrimenti che non siano quello di una geerale stanchezza
e di un ripetersi di forme convenzionali e stantie.
ARTI MINORI
Quanto si è notato circa il carattere poco unitario e poco organico
della scultura nella Provincia di Milano, va a maggior ragione ripetuto
per le arti minori. Ci troviamo anzi qui di fronte alla tipica situazione
che, se si eccettuano i cospicui tesori di Monza e di Lodi, è irrisorio,
se non addirittura nullo, il contributo degli altri centri minori. Le
guerre, i saccheggi, le soppressioni di enti religiosi alla fine del XVIII
sec., le requisizioni napoleoniche, posteriori allienazioni o disperdimenti
hanno irrimediabilmente sperperato i tesori delle chiese del Milanese:
e quel pochissimo che è rimasto è assai di scarso valore
artistico.
Si osservi poi che molti preziosissimi pezzi, specie del Tesoro Monzese,
hanno una provenienza del tutto estranea all'arte locale. Ciò che
è prodotto di quest'ultima ha quindi un caattere del tutto frammentario
ed episodico: e se è consentito di trovare talora qualche esempio
delle arti minori lombarde, del tutto impossibile è istituire su
tali pezzi un completo ed organico schema dello sviluppo storico artistico
delle arti minori del milanese.
OREFICERIA
I preziosi pezzi del Tesoro del Duomo di Monza sono così noti ad
ogni studioso d'arte che potremo limitarci ad una succinta elencazione.
Non soltanto il più venerando, come sacra reliqui, ma il più
antico sarebbe la Corona Ferrea, così ricca di storia nel suo breve
giro e nel nitore dei suoi smalti e dei suoi ori, se, ferma restando l'indubbia
origine orientale, si accetta la supposizione del Riegl. Egli distingue
gli smalti azzurri e rosso bruni che risalirebbero al IV sec. Da quelli
bianchi e azzurri su fondo verde che apparterrebbero ad un posterioe rifacimento,
forse del sec. IX, ma, con maggiore probabilità, del sec.VI. Esso
ha dato alla corona la sua impronta predominante con l'aggiunta delle
inalveolate pietre dure.
Meno note (anche per la disordinata, angusta e irrazionale collocazione
di tutto il Tesoro monzese, accatastato alla rinfusa negli umidissimi
armadi a muro della fine del XVIII sec.) sono invece quindici ampolline
metalliche (eulogie), un tempo contenenti olii delle lampade ardenti nei
Luoghi Santi e davanti alle tombe dei Martiri, inviate alla Regina Teodolinda
da Gregorio Magno al principio del sec.VII, ed elencate in un papiro che
tuttora si conserva. Sulla loro duplice faccia sono sbalzate minute e
stilizzate scene evangeliche di altissimo valore, in quanto, affidate
ai pellegrini in Terra Santa, come oggetto votivo, costituirono un prezioso
tramite tra la palestina e l'Occidente per la diffusione dell'iconografia
dei Luoghi Santi. Certamente postcostantiniane, e certamente orientali,
esse risalgono forse al sec. VI, prima cioè del predominio di una
più realistica visione, incompatibile con il loro stilizzato simbolismo,
e comunque prima delle invasioni arabe.
Al sec. VI o al principio del VII si assegna la magnifica legatura aurea,
ornata di gemme e da lamelle di granato, dono di Teodolinda - è
dubbia la identificazione di una "theca persica" ad essa donata
da Gregorio Magno - opera che, pur nella sua preziosità, ha ancora
un classico equilibrio nelle sue misurate partiture. Parimenti di origine
bizantina del sec. VI è la finissima croce pettorale che, sotto
un sagomato strato di cristallo di rocca violetto, lascia trasparie una
minuta Crocefissione niellata su oro.
Altro dono di Teodolinda è la tazza di zaffiro, di cui però
altro non resta che la coppa, di preziosa materia, ma senza pregi artistici,
poiché il piede ed il fusto sono opera del XV sec.
Tipici prodotti di oreficeria barbarica, nelle incastonature alveolate
delle pietre, sono la corona pensile aurea detta di Teodolinda, di caratteristica
forma, ma il cui fulgore originario è perduto, spogliata in occasione
delle rapine napoleoniche delle pietre preziose, sostituite da freddi
dischi madreporici, e la croce aurea di Agilulfo, rozzo ma significatissimo
lavoro di tecnica barbarica nella lavorazione granulare dei rilievi aurei
del fondo.
Problematica è la datazione di quel pezzo, veramente unico, tradizionalmente
esso pure dono di Teodolinda, che è il piatto circolare su cui
sono infissi una chioccia e la covata dei pulcini, in argento dorato.
Si è voluta sospettare una ricostruzione romanica di un'opera originaria,
ma ciò è disatteso dal fatto che nella lunetta del portale,
del XIII sec., riproducente i doni fatti dalla Regina, appare anche questo
pezzo: il che sta a confermare la sua tradizionale antichità. Trattasi
di un'opera in cui i caratteri realistici sono così assoluti (solo
il profilo da sparviero dei pulcini sembra attestare la vetustà
del lavoro) da trescendere comunque con una diligenza perfetta di riproduzione
ogni tecnica cronologicamente definita.
Una fase più tarda, e più esuberante, dell'oreficeria barbarica
ci annunciano il cosidetto reliquiario del dente, della fine del sec.
VIII, tempestato di gemme e di pietre su di una fronte, trapunta da un
mosso fondo in filigrana, in oro fino, e con una Crocefissione a punzone
sull'altra, e la fulgente croce di Berengario o del Regno, del sec. IX,
dove la incastonatura delle pietre in alveoli non è più
un'ornamento aggiuntivo, ma costituisce addirittura lo scheletro strutturale
del pesante gioiello.
Opera preminentemente d'oreficeria, data la testata in argento finemente
lavorata a traforo e tempestata di gemme, è il cosidetto pettine
di Teodolinda, con i denti in avorio. Contrariamente alla tradizione,
si tratta invece lavor probabilmente bizantino non certo anteriore al
sec. XII.
Senza altri tramiti mediani si salta al 1350, data del paliotto d'argento,
sull'altar maggiore del Duomo di Monza, opera dell'orafo milanese Borgino
dal Pozzo che, con un predominante gusto gotico, alternante sommari piani,
esigenze realistiche emanierismi stilizzati, narra, a forte sbalzo e con
rude energia, le storie di San Giovanni, introducendo, come elemento decorativo,
smalti translucidi, tanto diletti alla oreficeria lombarda.
Con maggiore finezza di esecuzione, smalti translucidi ornano un ricco
calice, donato sullo scorcio del XIV sec., da Gian Galeazzo Visconti.
E' tipico prodotto di bottega milanese improntato ad un gusto gotico fiorito
che si espande in edicolette, cuspidi, guglie, con minute statuine a tutto
rilievo, dai falcati e affastellati panneggi, e che già denota
quale suggestione svolgesse, anche nel campo della oreficeria, l'insigne
esempio del Duomo milanese.
Accanto ad una goticizzante statuetta di San Giovanni, d'origine veneziana,
il Tesoro di Monza possiede alcuni buoni esempi di oreficeria lombarda
del Quattrocento, caratterizzati dalla decorazione minuta e spesso trita
e da quel gusto del "grazioso", tipico nella plastica rinascimentale
lombarda. Ricorderemo una pisside in rame dorato, un calice, un raffinato
secchiello per acquasanta, due eleganti candelieri, unici superstiti di
una ricca fornitura requisita da Napoleone.
Ma il pezzo più cospicuo della oreficeria rinascimentale lombarda
appartiene invece alla Cattedrale di Lodi, a cui fu donato nel 1495 dal
Vescovo Pallavicino. Trattasi del magnifico ostensorio che nelle sue snodate
articolazioni, nella raffinata plastica dei rilievi e delle figure, nella
esilità delle sue parti e nella esuberanza ornamentale mostra quanto
profondamente fosse penetrato in ogni campo decorativo il gusto dell'Amadeo.
Di poco posteriore, del 1512, è la bellissima croce astile eseguita
dai milanesi fratelli Rocchi, per la Incoronata di Lodi, presso la quale
trovansi altri notevoli pezzi d'oreficeria dell'epoca. Essa palesa una
fusione di elementi classicheggianti e di esuberanti elementi decorativi:
nelle parti figurative, con robusto senso plastico, appaiono affinità
con l'arte di Cristoforo Solari, mentre nei fregi, nelle applicazioni,
nei trafori, nelle filigrane, nei candelabretti, l'opera richiama piuttosto
il gusto trito ed affastellato del Bambaia.
Imitazione della croce dei Rocchi è un'altra croce astile dell'orafo
lodigiano Bassiano Vegio, del 1514, presso il Duomo di Lodi, dove trovansi
un notevole calice della fine del sec. XVI ed un ostensorio ambrosiano
del 1583.
Se si accettua una popolaresca croce astile, con medaglioni a smalto,
a San Colombano al Lambro, si può dire che tutto il resto della
oreficeria del Cinquecento trovasi a Monza, il cui Tesoro possiede qualche
bel calice, un ostensorio ambrosiano, e una croce processuale, dello scorcio
del secolo, con scene della vita di San Giovanni Battista.
Della oreficeria barocca sono più diffusi gli esemplari, ma essi
sono generalmente anche più scadenti. Anche qui è il Tesoro
di Monza a darci taluni tra i più ricchi e caratteristici pezzi,
come un lavoratissimo calice del XVII sec., un macchinoso ostensorio ed
un altro reso prezioso dalle pietre e dai brillanti che lo decorano, busti-reliquiari
di santi, ecc. Pezzi di minore pregio e di una fattura più convenzionale,
ma di affine esuberanza decorativa, si trovano anche in minori centri
della Provincia, ma non con quella frequenza che, data l'epoca recente,
sarebbe da attendersi. Di ciò sono causa requisizioni e dipserdimenti,
dai quali invece si salvarono in gran numero candelieri a sbalzo, in argento
o in rame argentato, quasi sempre di fattura meccanica e convenzionale,
e che eccezionalmente raggiungono la ricca ed elegante decorazione di
un gruppo di essi nella chiesa di San Magno a Legnano.
Un paliotto d'argento a Vimercate, un mesciacqua e dei vassoi nel Tesoro
di Monza, e qualche altro raro pezzo della Provincia segnano finalmente
la transizione, negli ultimi decenni del sec. XVIII, al gusto decorativo
neoclassico.
VETRI E VETRATE
L'arte del vetro è assai poveramente rappresentata nella zona.
Quando si siano ricordati: un frammento di vetrata con la Incoronazione
della Vergine, nel Museo di Lodi, opera di un Alexis del Bolinis, del
1488, generica e debole opera; i frammenti del rosone del Duomo di Monza,
in un ripostiglio, del principio del sec. XVI, con derivazioni da Nicolò
da Varallo nelle figure degli angeli musicanti e con influssi butinioneschi
nelle figure degli Apostoli; una vetrata del sec. XVI, di greve fattura,
nella Badia di Morimondo, si è passato in rassegna tutto quanto,
in fatto di vetrate, possiede la Provincia. E' infatti estranea all'arte
locale, e probabilmente di un'artista tedesco, la greve vetrata con la
Deposizione, datata 1562, recentemente donata alla chiesa di Cernusco
sul Naviglio.
Rari sono i pezzi in vetro, o di modesta fattura, se si eccettuano due
eleganti vasi di Murano, della fine del XVI sec., nel Tesoro Monzese.
AVORI
E' privilegio del Tesoro di Monza, una notevole collezione di avori. Tra
i più rari di quanti che si trovino in Italia, entrambi di origine
bizantina ma con persistenza di un elegante gusto ellenistico, sono i
due dittici del sec. V, l'uno effigiante in un interessante interno il
poeta ispirato dalla musa, l'altro riproducente un guerriero ed una matrona
che stringe a sé un fanciullo, nei quali, secondo l'opinione prevalente,
sono da ravvisarsi Galla Placidia, Ezio e Valentiniano. Probabilmente
di epoca prossima, per quanto più rozzo, ma alterato nel sec. X,
in maniera assai goffa, è un altro dittico in origine consolare.
Opera del sec. X, forse di origine francese, è la fine legatura
in avorio, con eleganti fregi floreali, inquadrata entro cornici d'argento
lavorate, già contenente un sacramentario gregoriano.
Della fine del sec. XIV e di indubbia arte francese dal minuto e ritrito
intaglio goticizzante, sono un dittico con la Madonna e scene della sua
vita, mentre un altro più equilibrato e plastico trittico con la
Madonna e Santi, appartiene ad arte toscana del XV sec. Dello scorcio
di questo secolo, parimente d'arte francese, è un tabernacolo a
sportelli, con frastagliate e vivaci scene della vita di maria, contenente
una statua eburnea della Vergine, dal falcato panneggio, che dinota ancora
il tardivo perdurare nell'arte francese di stilizzazioni gotiche. Esso
mostra una stretta parentela con un esemplare del Museo del Castello Sforzesco
di Milano.
Meno interessanti artisticamente sono una cassettina in avorio del sec.
XVI dai comuni ornamenti, ed una tavoletta con la Trinità e gli
Evangelisti, del sec. XVII, alquanto pesante nelle sue tendenze barocche.
INTAGLI IN LEGNO
Per affinità con gli avori vanno qui ricordati alcuni piccoli pezzi
di intaglio in legno che si trovano nel Tesoro di Monza. Alcuni di questi
hanno un gusto elegantemente rinascimentale e sono di origine toscana.
Maggiore rarità hanno du dittici, lavorati con minutissimo, microscopico
intaglio, con le figure di Cristo benedicente alla greca, della Vergine,
Apostoli, di santi e di angeli, opera greca-bizantina del XIII sec., la
cui pazientissima esecuzione, di probabile origine monastica, conforta
l'opinione che essi provengano dai monasteri del Monte Athos. Lo stesso
deve dirsi, per strette affinità stilistiche, per la croce, di
alto spessore, tutta lavorata a trfori e a minutissimi intagli con le
scene figurative della Passione a basso e a tutto rilievo, raro pezzo
da mettersi a raffronto con la più integra croce della cattedrale
di Pienza.
PARATI ED ARREDI SACRI
Anche in questo campo il Tesoro di Monza ha il privilegio dell'antichità.
Di origine bizantina, del sec. VI, è un corporale (detto di San
Gregorio) in lino operato e ricamato a raffinati fregi stilizzati. Più
rozzo è il tessuto in lino operato detto "il ricamo della
Vergine", di origine siriaca, del IX o X sec., mentre all'XI, è
da assegnarsi il cosidetto "velo della Vergine", pure di origine
siriaca. Di fattura italiana, probabilmente di manifattura siciliana,
sono due mitrie triangolari, con bordure operate e gemme incastonate,
del sec. XIII.
Assai scarso è il numero dei parati sacri anteriori al Sei-Settecento,
se se ne escludono le pianetecinquecentesche della Incoronata, della Cattedrale
e del Vescovado di Lodi, e pochissimi altri esemplari, d'altronde di non
eccellente pregio. L'unica eccezione veramente cospicua è rappresentata
dal magnifico baldacchino della Cattedrale di Lodi, in ganzo dorato, con
ricami in seta e in soprarrizzo, dono fatto nel 1495 dal Vescovo Pallavicino,
raro ed egregio esempio della manifattura lombarda del Rinascimento.
Ma anche nel Sei e Settecento i non molti esempi di parati o di pianete
di manifattura lombarda, sono in genere piuttosto scarsi di pregi artistici,
sia che essi siano in tessuti damascati, broccati od operati a ricamo,
sia che per essi venga impiegata la più modesta fattura a spolino.
Essi non reggono il confronto con la manifattura veneziana, della cui
raffinata tecnica e della cui agile fantasia, abbiamo buoni esempi nelle
pianete di Cassano, di Pessano, di Lodi, ecc.
Meritano invece una speciale manzione gli stendardi ricamati ed operati
con esuberante fantasia barocca, specie nel secolo XVIII, tra i quali
ricordiamo quelli di Cesano Maderno, Vimercate, Morimondo, Inzago, della
Galleria di Monza, ecc.
ARAZZI
Di quest'arte il Duomo di Monza possiede una superba serie di nove arazzi,
con le storie di San Giovanni Battista, eseguita in una manifattura milanese
verso la metà del XVI sec. In essi perdura ancora una derivazione
leonardesca, visibile non soltanto negli atteggiamenti delle figure, ma
soprattutto nei larghi sfondi paesistici lacustri ed alberati e nella
fantastica flora stilizzata. Assai più che affinità con
la maniera del Luini, gli arazzi richiamano la facile vena narrativa,
diseguale ed un po' tardigrada, di Gaudenzio Ferrari immuni per altro
da accenni manieristici.
MINIATURE
Il campo della miniatura è molto ristretto nella Provincia di Milano,
e quel poco che vi si trova non ha grande significato per la storia di
questo campo artistico.
Opere alquanto pesanti, di una versione popolaresca locale, assai povera
di pregi artistici sono tre corali quattrocenteschi del Duomo di Monza.
Una raffinata cura decorativa che tuttavia cela la povertà degli
elementi figurativi, di un modesto gusto ecclettico e tradizionalistico
lombardo, contraddistingue i cinque corali del Museo Civico di Lodi, donati
alla Cattedrale, nel 1495, dal Vescovo Pallavicino.
Da essi sembra aver tratto qualche ispirazione, verso il 1530, quel frate
Giovanni da Pandino che miniò, con minute decorazioni, e con timide
interpretazioni figurative di un ecclettico carattre lombardo, esente
ancora da influenze leonardesche, ma non altrettanto libero da suggestioni
raffaellesche, specie negli ornati, i cinque corali della Incoronata di
Lodi. Modestia di mestiere, più che d'arte, che troverà
una prosecuzione nei posteriori corali per la cattedrale di Vigevano.
Verso il 1517-18 devono ritenersi eseguiti, durante un soggiorno monastico
a Villanova Sillaro, il corale e le miniature sciolte, che si trovano
nella casa parrocchiale di quel remoto centro del Lodigiano. Essi rappresentano
una singolare e fuorviata esperienza claustrale di fra Giovanni da Verona,
sulla quale il tempo ha voluto esercitare la sua vendetta, perchè
dei venti corali miniati dal celebre intagliatore ed intarsiatore, non
rimangono che queste poche vestigia. Va subito aggiunto che il corale
e le poche miniature sciolte (evidentemente tolte dai corali dispersi)
non rilevano una grande perizia e particolari valori artistici. Il miniatore
si mostra assai cauto nell'affrontare questo campo a lui inconsueto; si
limita a fregiare decorativamente iniziali e capiversi e nei pochi brani
figurativi ripete elementi tradizionali con un modesto eccletismo tosco-lombardo.
PALIOTTI IN STUCCO
Va infine ricordato, come caratteristico della zona, il largo diffondersi
nella seconda metà del XVII sec. E nella prima metà del
XVIII - probabilmente su esempi di arte monastica - di paliotti in stucco
policromi, intarsiati, in cui spiccano su fondo nero o bianco foglie stilizzate
a volute e girali, con fiori e uccelli, generalmente attorno ad uno scudo
centrale dipinto. Il Duomo di Monza, le Badie di Viboldone, di Morimondo,
di Ospedaletto Lodigiano, le chiese di Cuggiono, di Vimercate e moltissime
altre possiedono notevoli esempi di questa tipica arte minore locale che
rasenta il mestiere.
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